Sabato 4 ottobre a Roma il popolo che sostiene la Resistenza palestinese era in piazza San Giovanni, un milione e oltre di persone, lavoratori, studenti pensionati, giovani, famiglie, “altro che terroristi” commentano gli organizzatori. Una piazza e un popolo che per numeri è lo specchio di quanto il movimento spontaneo che ormai da due anni riempie le strade delle città ogni sabato è cresciuto. Un movimento trasversale che riunisce il comune sentire rispetto a quanto subito dalla popolazione palestinese, oggi come da ottant’anni, assediata nei propri territori dall’espansionismo israeliano, che non si cura del diritto internazionale come dimostrato anche dal blocco navale (oltre che di terra) che impedisce da mesi e mesi alle derrate alimentari, ai medicinali e agli aiuti umanitari di raggiungere la Striscia di gaza, assediata e bombardata costantemente e dove il conto dei morti sfiora i 70.000, di cui 20.000 bambini.
Dopo i due milioni di cittadini che hanno risposto alla chiamata di venerdì 3 ottobre, con lo sciopero indetto in seguito al fermo degli attivisti della Global Sumud Flotilla in acque internazionali, sabato Roma è stata raggiunta da persone provenienti da tutta Italia, si tratta di una “rivoluzione di popolo”, accomunata dai valori della Resistenza e che si oppone al colonialismo sionista a fianco dei palestinesi, a cui ancora viene negato il diritto a uno Stato indipendente e a un territorio libero dal controllo israeliano.
Un “risveglio collettivo” di fronte all’immobilismo della politica italiana e internazionale che di fatto non è intervenuta a sanzionare Israele per quelli che la stessa Corte penale internazionale ha definito “crimini contro l’umanità e crimini di guerra”, da cui i mandati di arresto emessi riguardo i presunti crimini commessi dai due esponenti politici israeliani, tra l’8 ottobre 2023 e il 20 maggio 2024, durante il conflitto a Gaza, riscontrando fondati motivi per emettere un mandato di arresto per il Primo Ministro israeliano Netanyahu e l’ex Ministro della Difesa Gallant. Secondo la Corte, “Netanyahu e Gallant hanno agito consapevolmente per impedire aiuti umanitari, violando il diritto internazionale umanitario. Tali azioni avrebbero causato malnutrizione, disidratazione e sofferenze gravi alla popolazione civile, con un impatto devastante su ospedali e infrastrutture essenziali. La Camera ha sottolineato che le restrizioni erano motivate politicamente e non da necessità militari.”
Le manifestazioni e gli scioperi sempre più partecipati riassumono la crescente indignazione dei lavoratori e dei cittadini, anche dopo quanto avvenuto di recente in Parlamento dove nemmeno l’opposizione ha avuto il coraggio di esprimersi con fermezza rispetto alla discussione sulla proposta di pace di Trump, il quale in conferenza stampa insieme a Netanyahu ha dichiarato che se questa non fosse stata accolta “Bibi avrebbe terminato il lavoro a Gaza”.
Altrettanto forte la critica di chi era in piazza sabato e venerdì a come il Governo ha gestito il caso della Flotilla, prendendo le distanze dalla missione umanitaria partecipata da 44 Paesi tra cui molti italiani salpati a fine agosto per raggiungere Gaza e provare a forzare il blocco navale israeliano a 100 kilometri dalle coste, in violazione di qualsiasi norma internazionale. Il Governo ha ritenuto invece di suggerire agli attivisti di non interferire e di evitare la prosecuzione della missione, delegittimandola e di fatto accettando quanto imposto da Israele.
La Cub sostiene la Resistenza palestinese dall’inizio, quando è stato ben presto evidente che la reazione israeliana agli attacchi del 7 ottobre ha assunto dimensioni spropositate, andando ben oltre la rappresaglia. E il sostegno trasversale alle iniziative di lotta e mobilitazione per chiedere interventi al Governo italiano e a livello internazionale è cresciuto di pari passo. Un segnale di consapevolezza di chi non è più disposto a restare in silenzio a osservare crimini e ingiustizie e che si salda alle rivendicazioni contro le scelte economiche e politiche che invece vanno nella direzione di un’economia di guerra sempre più preponderante nelle scelte di bilancio, sottraendo finanziamenti al resto.
