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Cub nazionale: un progetto per la formazione

CUB NAZIONALE: UN PROGETTO PER LA FORMAZIONE

Dalla teoria alla prassi – Gli incontri si svolgeranno presso la sede Cub di Milano, a partire da venerdì 15 marzo e sabato 16 marzo 2024

Uno dei principali lasciti della pandemia è quello di avere ridotto e quasi azzerato l’abitudine a discutere in presenza, lasciando spazio a varie forme di comunicazione e dibattito a distanza. Questo processo di smaterializzazione dell’attività politica e sindacale tradizionale ha avuto il merito di garantire la continuità dell’intervento anche in momenti di chiusura totale; nelle fasi successive ha prodotto un cambiamento strutturale nel funzionamento delle organizzazioni, facendo scoprire i grandi risparmi in termini di tempo e di denaro conseguente alla limitazione degli spostamenti.

Gli indubbi vantaggi non possono compensare la grande perdita di convivialità e fisicità conseguente a questo mutamento nelle relazioni sociali: in particolare rischiano di andare definitivamente compromessi i legami personali che maturano nella frequentazione quotidiana e in tutte quelle battaglie politiche e teoriche che non possono prescindere dal confronto diretto delle idee. Per un’organizzazione sindacale di base, la rarefazione dei confronti in presenza significa anche uno scollamento pesante del quadro attivo intermedio, rispetto alla direzione e ai suoi obiettivi. Il senso di appartenenza e identità non viene più alimentato da un confronto diretto, orizzontale e paritario. Aumenta la distanza tra vertice e base, si interrompe la circolazione di idee, si blocca la rotazione degli incarichi ed il ricambio generazionale.

Si può e si deve rimettere in moto un meccanismo interrotto e rilanciare un progetto di formazione che possa garantire la trasmissione interna dei saperi, delle competenze, delle esperienze, e nello stesso tempo attingere alle competenze esterne, per aggiornare le mappe di un mondo sempre più immerso in cambiamenti accelerati che modificano le coordinate del nostro agire.

Il risultato cui tendere non può che essere un’organizzazione di quadri formati in modo rigoroso, con competenze accresciute, uno spirito di squadra rafforzato, una coesione condivisa negli obiettivi e nei metodi. L’obiettivo finale deve essere la crescita di quadri totalmente autonomi su ogni aspetto dell’attività sindacale e politica da svolgere nel vissuto quotidiano, ma nello stesso tempo disponibili ad aiutarsi reciprocamente nel superare i tanti passaggi difficili che si presentano periodicamente sulla nostra strada.

AREE TEMATICHE

  1. La guerra e la geopolitica

La guerra è ritornata, come esito della disgregazione dell’ordine mondiale. Si tratta di un evento non episodico: la fine dell’egemonia USA lascia il posto ad un sistema multipolare dove molti soggetti diversi provano a giocare un ruolo e ricavarsi uno spazio. L’Occidente collettivo sta “perdendo” il Sud del mondo. Ma il Sud del mondo tenta di aggregarsi, con enormi contraddizioni, attorno a nuovi poli di riferimento (BRICS in primo luogo). Si tratta dell’inizio di un conflitto lungo, che può portare ad un nuovo equilibrio o ad una costante instabilità.
La guerra ha riportato alla ribalta la geopolitica, la lotta tra potenze di mare e quelle di terra, lo scontro tra Rimland e Heartland per il controllo dell’”isola mondo”. Da Panama a Taiwan, iI controllo degli stretti (che passa anche per il Mediterraneo ed il canale di Sicilia) determina il potere sulla circolazione delle merci su scala mondiale. L’Italia è penisola strategica per la sua posizione geografica e quindi deve schierarsi: la scelta atlantica schiacciata sulla Nato non può avere deroghe.

Per i lavoratori ed il sindacato si tratta di costruire un punto di vista autonomo e critico, che sappia recuperare la tradizione migliore dell’elaborazione di classe in questo campo: pensiamo alle attività, ad esempio, di Alberto Tridente e Adriano Serafino (dirigenti FIM Cisl di Torino) che negli anni 70 contribuirono ad aprire l’intervento contro le produzioni militari. Questo dovrebbe essere il nostro compito: la critica verso l’involuzione militarista della società e la lotta per la riconversione produttiva delle fabbriche di armi. Nello stesso tempo, a livello generale, dotarsi degli strumenti per contrastare la corsa verso il baratro bellico e spingere per un modello di cooperazione internazionale che sostituisca il dialogo al conflitto e punti ad una coesistenza pacifica tra sistemi politici diversi: la guerra rende solo i poveri più poveri.

  1. L’economia e la crisi

Dalla fine dei 30 gloriosi viviamo in una emergenza economica permanente. L’instabilità del capitalismo smantella sistematicamente le garanzie che i lavoratori riescono talvolta a conquistare nei momenti di forza e di conflitto. Con la globalizzazione è stata rivoluzionata la geografia produttiva precedente, tutto il mondo è diventato la fabbrica del capitale. I Paesi destinatari di investimenti e produzioni hanno ora raggiunto e superato la soglia critica per pretendere più autonomia e soprattutto una maggiore quota parte del valore aggiunto complessivo. Da qui parte il nuovo ciclo dello scontro imperialista (tra soggetti diversi da prima) per conquistare l’accesso a risorse e materie prime strategiche, insieme a mercati di sbocco per valorizzare il prodotto.

Si tratta di ricostruire le mappe produttive mondiali e individuare, nel nuovo contesto, lo spazio residuo concesso alla vecchia Europa, centrata sulla Germania in crisi, con ricadute potenzialmente devastanti sui soggetti più fragili come l’Italia.
Qui dove la crisi degli investimenti è più grave e di più lunga data, dove il posizionamento competitivo più problematico, dove il peso del debito impedisce interventi pubblici di consistenza significativa, dove anche il PNRR non riesce ad attivare cicli virtuosi di reindustrializzazione. Prendere coscienza del punto in cui siamo è l’unico modo per provare a ripartire, con politiche industriali adeguate ad agganciare una reale transizione energetica verso modelli produttivi sostenibili sul piano ambientale e sociale.

  1. Il bilancio dello stato e le politiche fiscali

Anche dopo la crisi del 2008-2011 e le politiche di austerità imposte da governi tecnici e politici, il debito pubblico è salito di altri 1.000 miliardi in 10 anni. Il peso fiscale è sempre più sbilanciato sul lavoro (dipendenti e pensionati) che paga quasi interamente l’IRPEF, mentre tutte le altre categorie godono di sistemi di esenzione o di favore.
Il sistema fiscale continua a prelevare in misura esorbitante su una platea sempre più ristretta, mentre tutte le misure prese sono volutamente inadeguate a correggere gli squilibri. Dobbiamo documentare nel dettaglio questo meccanismo distorto e costruire le basi per una inversione delle logiche in corso, che troveranno piena conferma ed attuazione con la riforma fiscale contenuta nella legge delega.

  1. Il welfare e le politiche assistenziali

Dopo la pandemia sembrava maturato un atteggiamento politico più ragionevole rispetto alla sanità, per le gravi lacune emerse a tutti i livelli nella gestione dell’emergenza, dovute prevalentemente ai tagli forsennati operati nel decennio precedente a personale sanitario e strutture ospedaliere. Invece la strategia dello smantellamento progressivo del SSN prosegue e lo spettro delle liste d’attesa viene usato per aprire ulteriori spazi alla sanità privata. Si tratta di verificare l’evoluzione della spesa e stigmatizzare lo spostamento di risorse verso strutture private, che hanno fatto esplodere il mercato delle assicurazioni sanitarie e innescato i processi di concentrazione delle società di cura, di assistenza, di diagnostica.
Lo stesso va fatto sulle pensioni: mentre stenta a decollare una previdenza integrativa complementare (anche per l’esiguità delle risorse immesse dalle aziende nel deprecabile welfare aziendale), il governo sfrutta l’inflazione per tagliare il valore reale delle pensioni (soprattutto medio-alte) e peggiora costantemente le norme per il pensionamento (manca poco e riusciranno a peggiorare anche la legge Fornero).
L’altro grande capitolo del welfare pubblico, il sistema scolastico, versa in gravi ambasce, per la scarsità delle risorse investite, la carenza di organico, la crescita dei bisogni formativi dovuti ai DSA, l’età media del personale, il blocco del ricambio generazionale, lo stato disastroso dell’edilizia scolastica, la logica aziendalista che permea gli interventi politici sul settore.
Come sindacato dobbiamo utilizzare il radicamento dei lavoratori nei vari settori del pubblico impiego per elaborare politiche sui servizi che salvaguardino il carattere universale della cura e della prevenzione, difendere il SSN, sventare il finanziamento ai privati e la divisione dei malati tra chi può permettersi di pagare e chi no.

  1. Il mercato del lavoro e l’occupazione

Le cifre ufficiali descrivono una realtà virtuale, in cui l’occupazione cresce (addirittura oltre il livello pre-pandemico), le imprese faticano a trovare manodopera qualificata, alcuni settori (come edilizia, agricoltura e assistenza domiciliare) non starebbero in piedi senza l’afflusso dei migranti, i tassi di disoccupazione sono a livelli fisiologici, in particolare nel Centro Nord.
La nostra esperienza racconta invece di stabile precarietà, di difficoltà a trovare lavoretti che consentano di sopravvivere, di part-time involontario, di lavoro nero. Le cifre del sommerso sono, ufficialmente, sbalorditive e la pratica di farsi restituire in contante parte della paga che compare sul cedolino è ancora molto diffusa, soprattutto al sud e nell’economia  informale o criminale.
Si tratta di capire bene come vengono calcolate e diffuse le statistiche sul mercato del lavoro, utilizzare questa griglia per comprendere la mappa della struttura produttiva, individuare gli strumenti di sostegno del reddito dopo l’azzeramento del Reddito di cittadinanza, aggiornare la gamma disponibile degli ammortizzatori sociali. Le politiche assistenziali disperse in mille rivoli (dallo stato, ai comuni, alla Caritas) non risolvono alcun problema, ma trasformano il questuante in soggetto passivo che dipende dalla mano amica. Occorre saperne di più, per ribaltare l’ordine delle cose e conquistare diritti esigibili in dinamiche sociali collettive.    

  1. Il sindacato e l’organizzatore sindacale

In tutti i Paesi di antica industrializzazione il sindacato vive una crisi storica che ne ha modificato i caratteri. Nessuno dei modelli tradizionali ha resistito alla violenta tempesta della delocalizzazione: né il modello del sindacato aziendale americano, né il modello del sindacato tedesco della cogestione, né il modello del sindacato italiano della contrattazione conflittuale (che negli ultimi 40 anni ha tentato, con scarso successo, di passare alla concertazione subalterna).
Il ribaltamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro ha spazzato via le resistenze al disciplinamento produttivo e sociale, attaccando frontalmente il sindacato del conflitto: per fare sopravvivere le proprie strutture questo ha scelto di diventare altro, un’articolazione della pubblica amministrazione che gestisce servizi fiscali e patronati, e sfrutta gli enti bilaterali per integrarsi nella gestione di flussi economici di tipo nuovo.
Nei Paesi di recente industrializzazione la crescita dei sindacati è un fenomeno poco conosciuto, spesso trascurato, il più delle volte represso con durezza dal sistema di potere. Sarebbe interessante saperne di più e magari scoprire che ha qualcosa da insegnarci.
Intanto negli ultimi tempi compaiono bagliori fugaci, qua e là per il mondo: vertenze sindacali per ottenere aumenti salariali adeguati all’inflazione sono esplose in diversi Paesi europei e nell’industria dell’auto Usa, sebbene non si possa parlare di ondate generali.
Il dibattito deve aprirsi anche rispetto ai compiti del militante sindacale di base, che si trova oggi a confrontarsi quotidianamente con una classe molto meno compatta di un tempo e nello stesso tempo priva di rappresentanza reale. Una classe composita, con forti stratificazioni professionali, livelli molto diversi di copertura e tutela contrattuale, difficilmente decifrabile con l’apparato di conoscenza disponibile. E questo militante (il più delle volte invecchiato e demotivato) si trova a gestire queste problematiche, spesso dirompenti, privo di strumenti difensivi, di diritti, di risorse, talvolta anche di indirizzo da parte delle stesse strutture centrali.
Occorre quindi un ripensamento del nostro modello, che porti ad una ripresa del radicamento nella struttura produttiva delle imprese e nella realtà territoriale di operatività.
Una riorganizzazione che non può che passare attraverso un radicale ricambio generazionale che consegni l’organizzazione a nuove truppe fresche, con tanti errori ancora da fare e tanta energia da esprimere. È una strada lunga e faticosa, ma non ci sono scorciatoie ed il tempo stringe…
Evidentemente le cose semplici non sono fatte per noi!

Torino, Renato Strumia       

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I relatori:

Scheda Paolo Ferrero

Scheda Guido Ortona

Scheda Roberto Romano

 

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