Ci stiamo trasformando in una economia di guerra? Stando a un report commissionato da Banca Etica siamo dinanzi a un giro di affari colossale e in continua crescita, parliamo di oltre 959 miliardi di dollari provenienti dalle istituzioni finanziarie a supporto della produzione e del commercio di armi. E i luoghi di lavoro sono soggetti a feroci militarizzazioni
Scioperare contro il trasporto di armi via ferrovia o attraverso porti e aeroporti sta diventando sempre più difficile per gli interventi della Commissione di garanzia e perché in nome della difesa nazionale e internazionale si intende tappare la bocca ai lavoratori e alle lavoratrici che non vogliono rendersi complici della guerra e del riarmo.
La Finanziarizzazione della guerra alimenta i conflitti perché i processi speculativi in campo economico e finanziario sono parti dirimenti di questo processo che vede non
solo la riconversione di produzioni civili in militari, magari con l’assenso del sindacato che a tutela dell’occupazione ha avallato la produzione di nocività e il sostegno al
riarmo, ma un giro di affari inimmaginabile.
Mediobanca parla di un rendimento azionario delle aziende della difesa attorno a +72,2% tra il 2022 e il 2024, investire in titoli azionari di imprese produttrici di armi significa accumulare utili superiori del 350 per cento di normali linee di investimenti. E i processi di riconversione riguardano in Germania l’indotto metalmeccanico da anni
in crisi, il sindacato ha prima favorito esodi volontari poi rinunciato a chiedere l’adeguamento dei salari al costo della vita e infine in silenzio lascia che la crisi dell’indotto venga risolta assoldando piccole e medie aziende nella produzione di armi.
Il sindacato diventa complice del riarmo:
• Non opponendosi alla guerra attraverso campagne, scioperi e mobilitazioni.
• Scambiando aumenti contrattuali irrisori con istituti contrattuali divisivi.
• Favorendo la speculazione finanziaria attorno a titoli di imprese belliche (e i fondi pensioni del nord Europa non lesinano acquisizione di azioni destinate a grandi utili).
• Non opponendosi alle spese militari al 5% del Pil deciso nell’ultimo summit Nato. Per trovare questi soldi taglieranno il welfare, i fondi destinati al sociale.
• Facendo credere che sottostare al riarmo e all’economia di guerra saranno salvati i posti di lavoro come quando accettavano produzioni nocive con lo spettro dei licenziamenti.
Si dimentica invece che:
• Il settore della produzione di armi non è ad alta intensità di manodopera.
• L’aumento esponenziale della produzione di sistemi di arma non ha generato l’occupazione auspicata anche dai sindacati.
• Gli effetti della riconversione economica sono tutti da dimostrare, ad esempio qualcuno si è chiesto quali sarebbero gli effetti sul settore dell’auto se ripensato in chiave ecologica?
In un quadro generale di aumento di spese militari registriamo:
• il diffondersi della “cultura di guerra” nelle scuole e nelle università attraverso protocolli e accordi di vario genere fino agli stages formativi all’interno delle aziende di armi e delle basi militari.
• l’indottrinamento quotidiano delle alunne e degli alunni nelle scuole di ogni ordine e grado.
• Il diretto coinvolgimento del personale scolastico da parte del Governo, delle Forze Armate e di Fondazioni nella quotidiana costruzione della dottrina di guerra.
• Il coinvolgimento di lavoratori lavoratrici nella logistica di guerra (portuali, ferrovieri, aeroportuali ecc.) pregiudicando anche il loro diritto allo sciopero.
Si rende necessaria una risposta dalla classe lavoratrice in ogni categoria. Deve crescere un impegno in ogni luogo di lavoro che leghi informazione, sensibilizzazione, conoscenze per una presa di posizione contro l’economia di guerra e le logiche dell’economia bellica
Urge una unità di azione con le realtà antimilitariste e pacifiste per reagire prontamente, pena la povertà, la distruzione e la fine dell’umanità e dell’essere umano.
Il 13 Luglio manifestiamo davanti a Camp Darby per chiudere gli avamposti di guerra sui nostri territori.
Fermiamo la macchina del riarmo prima che depredi le ricchezze sociali di ogni paese Ue, questa dovrebbe essere la sola parola d’ordine comune.
E sul punto si rinvia a quanto scritto dalla Bce:
I necessari aumenti della spesa per la difesa potrebbero avere un impatto significativo sui bilanci, richiedendo un maggiore margine di bilancio. Con l’evoluzione dei parametri di sicurezza europei, alcuni governi mirano a rafforzare l’autosufficienza nel settore della difesa. Data l’ampia gamma di spese correnti per la difesa e il nuovo obiettivo di spesa attualmente in discussione nelle sedi europee e internazionali, alcuni paesi potrebbero dover apportare aumenti sostanziali. La capacità a breve termine di soddisfare tali esigenze varia notevolmente in quanto le esigenze di rifinanziamento e i livelli di debito non sono omogenei tra i paesi. Di conseguenza, la maggior parte dei paesi più indebitati non si è finora impegnata ad aumentare notevolmente la spesa per la difesa. Per creare lo spazio fiscale necessario, il “ReArm Europe Plan/Readiness 2030” della Commissione europea suggerisce di attivare la clausola di salvaguardia nazionale del patto di stabilità e crescita e di erogare prestiti da nuovi prestiti congiunti utilizzando lo strumento dell’azione per la sicurezza per l’Europa (SAFE). Inoltre, il piano suggerisce di riutilizzare parte dell’attuale bilancio dell’UE e di mobilitare capitali privati accelerando la formazione di un’Unione del risparmio e degli investimenti. Anche la Banca europea per gli investimenti potrebbe svolgere un ruolo.
(Per approfondire: Revisione della stabilità finanziaria, maggio 2025)
CONFEDERAZIONE UNITARIA di BASE TOSCANA