LEGGE SULLA PARTECIPAZIONE DEI LAVORATORI ALLA GESTIONE, AL CAPITALE E AGLI UTILI DELLE IMPRESE
(E. Gentili, F. Giusti e S. Macera)
È stata emanata la legge sulla partecipazione dei lavoratori agli utili e all’amministrazione aziendali. Il testo è nato da una proposta di legge di iniziativa popolare presentata dalla Cisl (1) e approdata in Parlamento a fine 2023. Un’approvazione-lampo e, in teoria, per nulla scontata! Si consideri infatti che, «dal 1980 alla scorsa legislatura, sono state presentate ben 262 proposte di legge di iniziativa popolare, ma di queste 151 non sono mai state neanche calendarizzate nei lavori parlamentari. Altre 108 si sono fermate nelle commissioni competenti. Solo tre sono diventate leggi, seppure non nella forma originaria, ma sempre entrando in nuovi veicoli normativi composti per aggregazione di progetti similari» (2). Il nostro caso non fa eccezione: sono ben sei (3) le proposte discusse in Parlamento sulla partecipazione dei lavoratori e quella cislina arriva, in ordine cronologico, fra le ultime (la proposta del Deputato FdI Cirielli è stata addirittura presentata prima che la Cisl cominciasse a raccogliere le firme). Dunque, nonostante si tramuti in legge una storica proposta della Cisl siamo in presenza di una disposizione fortemente voluta anche da Governo e associazioni datoriali. Dal momento che viene mascherata come un’operazione di democrazia sociale ed economica nei luoghi di lavoro, pensiamo che sia opportuno e urgente svelare i trucchi e gli inganni in essa contenuti. Lo smaccato opportunismo della Cisl, evidente non solo nell’intestarsi la paternità assoluta della Legge ma anche nell’accreditarsi come interlocutore privilegiato del Governo, ci rende ancor più sospettosi e preoccupati per le future sorti della democrazia nei luoghi di lavoro e del conflitto sociale.
I. Analisi legislativa
Articoli I e II – L’obiettivo dichiarato della Legge è quello della partecipazione economica, finanziaria, organizzativa e consultiva dei lavoratori a gestione, organizzazione, profitti, risultati e proprietà dell’azienda, in attuazione dell’Articolo 46 della Costituzione4 e della giurisprudenza comunitaria di riferimento.
Vengono definite giuridicamente le quattro forme di partecipazione individuate. In particolare, la partecipazione dei lavoratori a gestione e organizzazione aziendali riguarda la strategia (il business), l’organizzazione produttiva e le implementazioni del processo di lavoro.
Articoli III e IV – È consentita la partecipazione di rappresentanti dei lavoratori agli organismi direttivi dell’azienda. Nel Codice Civile italiano (5) viene prevista la possibilità di un doppio ordinamento direttivo aziendale: un Comitato di gestione e uno di Sorveglianza; un unico Consiglio di Amministrazione. Nel caso il Ccnl di competenza lo preveda, gli articoli in discussione concedono all’imprenditore di selezionare a sua discrezione alcuni rappresentanti dei lavoratori come partecipanti degli organismi direttivi. Tuttavia, rispetto alla proposta di legge della Cisl il riferimento ai Ccnl viene spesso sostituito da quello agli Statuti aziendali – che, ciononostante, era presente a iosa anche nel testo originario. Non è però neanche vero, come è stato asserito da vari commentatori, che dal testo finale scompaia la quota minima di lavoratori ammissibili negli organismi direttivi, perché la Cisl si era ben premunita di stabilire tale quota (corrispondente a un quinto del Consiglio) solo nel caso del Consiglio di Sorveglianza, tenendo fuori le rappresentanze dei lavoratori dagli organismi economicamente più importanti: Comitato di Gestione e Consiglio di Amministrazione. La differenza rispetto alla proposta originaria sta nella scelta di subordinare alla contrattazione collettiva la partecipazione dei dipendenti al Consiglio di Sorveglianza, anziché al puro e semplice arbitrio padronale. Per questa via, la presenza dei lavoratori in tale Consiglio contribuirà soltanto a rafforzare quella lunga catena burocratica che già oggi viene utilizzata per imbrigliare il conflitto, ad esempio sulle questioni legate alla salute e alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Non per niente la Legge caldeggia «la presenza di almeno un rappresentante dei lavoratori che aderiscono ai piani di partecipazione finanziaria», suscitando dubbi persino da parte liberale proprio per il rischio che tali rappresentanti divengano «portatori di interessi non pienamente omogenei», funzionali «all’investimento operato da tali lavoratori nell’attività economica del datore di lavoro e non alla loro natura di prestatori di lavoro della società» (6).
I rappresentanti dei lavoratori, dunque, saranno scelti dall’azienda e, come se non bastasse, verranno sottoposti ad alcuni meccanismi di controllo:
– l’art. 3 si basa sull’art. 32-bis del Codice Penale (7). Questo dice che un membro di organismi direttivi è soggetto a condanna penale (almeno 6 mesi) in caso adotti una condotta illecita riconducibile all’abuso di poteri o alla violazione dei doveri inerenti all’ufficio (cosa probabilmente non così difficile per un rappresentante sindacale, considerato che “l’ufficio” è uno dei due massimi organismi direttivi della controparte). Inoltre è inaccettabile che i lavoratori subiscano condanne per condotte illecite degli imprenditori solo perché condividono un ruolo nel CdA: non condividono i profitti, e se vale il principio secondo il quale una colf non debba pagare per violazioni di legge dei padroni della villa in cui lavora, un lavoratore dipendente non dovrebbe essere imputabile per i reati di manager, imprenditori e affaristi vari. Nel recente passato, tuttavia, lavoratori cooptati negli organismi direttivi (magari di cooperativa) hanno subito processi e condanne per le colpe non loro attribuibili… Nei fatti il Governo e la Cisl hanno inteso istituzionalizzare questa pratica profondamente scorretta;
– nel caso delle aziende dotate di CdA i rappresentanti dei lavoratori vengono scelti dai dipendenti stessi. In compenso, le norme di controllo sono più rigide e impongono delle clausole di eleggibilità. Queste sono definite da «codici di comportamento redatti da associazioni di categoria o da società di gestione di mercati regolamentati» (8), se previsto dallo Statuto aziendale, nonché dai «requisiti di onorabilità e professionalità previsti dallo statuto della società o, in mancanza, dai codici di comportamento redatti dalle associazioni di categoria».
Tutto ciò significa che l’istituto della rappresentanza dei lavoratori presso gli organismi direttivi aziendali non gode di una clausola di salvaguardia democratica che faccia da contrappeso agli squilibrati rapporti di forza esistenti fra lavoro e impresa nell’ambito delle cosiddette “relazioni industriali”. Proporre “nuove” forme di partecipazione senza tutelarle dal punto di vista democratico e dell’effettivo potere contrattuale vuol dire, in realtà, confinare la partecipazione entro determinate modalità espressive prestabilite e limitate. In sintesi: una partecipazione di facciata.
Articolo V – In caso di «distribuzione ai lavoratori dipendenti di una quota degli utili di impresa non inferiore al 10 per cento degli utili complessivi» viene ampliata la base imponibile per la detassazione degli importi. Se prima, cioè, il limite per non pagare tasse era di 2000 €, d’ora in poi sarà di 5000. Questo viene fatto nell’ottica di potenziare il welfare aziendale e ciò, a nostro avviso, va a scapito della contrattazione sindacale dei livelli salariali. Difatti non vi sarebbe alcun problema se le risorse utilizzate dallo Stato per compensare gli sgravi fiscali andassero a finire nelle tasche dei lavoratori: non per niente, si chiama “Stato sociale”! Osservando i dati sui rinnovi di Ccnl avvenuti nel 2024, però, le cose non sembrano stare così: «la quasi totalità degli accordi in materia retributiva affronta il tema dalla prospettiva del salario premiante» e «Più della metà degli accordi in materia di premio di risultato prevede l’opzione di welfarizzazione del premio», pertanto la detassazione prescritta dalla Legge in esame consentirà ai datori di lavoro di concedere aumenti più contenuti, condividendo una quota limitata di utili aziendali, realizzati prevalentemente con aumenti di produttività. Non è casuale che «Tra gli obiettivi più ricorrenti per la retribuzione di risultato si rilevano la produttività e l’efficienza economica, che rappresentano il criterio predominante insieme alla redditività e, in misura minore ma comunque significativa, alla qualità» (9). Del resto, di norma i premi di produttività sono competenza della contrattazione di secondo livello e la loro detassazione è storicamente, da anni, un mezzo per favorire le componenti accessorie del salario e indebolire i Ccnl (oltre che un tradizionale “cavallo di battaglia” cislino).
In un’epoca di grande incertezza economica legare il salario alla produttività sta diventando vitale: un salario che sia una variabile direttamente dipendente dai profitti realizzati dal capitale è sempre più necessario per i padroni. È questo il loro principale obiettivo, non certo la “liberalizzazione della dinamica salariale”.
Volendo difendere la Legge si potrebbe obiettare che il 10% (10) degli utili complessivi realizzati, poniamo, in un trimestre o in un anno non sia poco… ma invece gli aumenti saranno contenuti e per diversi motivi: sono le aziende a decidere quando condividere la decima parte degli utili; l’abituale spacchettamento delle proprietà aziendali in settori di attività comporta che spesso anche i fatturati vengano suddivisi; in aziende medie e grandi (aventi quindi un buon numero di dipendenti) la condivisione del decimo non porta una grande somma nelle tasche del singolo lavoratore.
In ultimo, a nostro parere vi sono state due colpevoli mistificazioni nel modo in cui il Governo ha presentato la questione della detassazione: non si è verificato alcun vero innalzamento del valore dello sconto fiscale, dal 5 al 10%, in quanto fu la stessa Meloni ad abbassare l’aliquota dal 10 al 5% nel suo primo anno di premierato (11); la Finanziaria 2016 (12) ha escluso dall’agevolazione fiscale tutti quegli emolumenti – come lo straordinario e le altre maggiorazioni salariali o le varie indennità – che, pur quando apportino miglioramenti produttivi o qualitativi, non vengano corrisposti in ragione del risultato ma delle condizioni di impiego (un turno notturno, uno straordinario, ecc.), mantenendola invece valida per la riorganizzazione dei turni (13), l’aumento dei ritmi di lavoro, lo smart-working… Anzi, secondo la nostra giurisprudenza la riduzione dei turni straordinari sarebbe proprio uno dei criteri indicati per misurare gli incrementi di produttività! Secondo Ipsoa, gli incrementi contemplati dalla legislazione generale italiana sul lavoro risultano, ad oggi, così definiti: aumento della produzione (diminuzione numero riparazioni, diminuzione dei tempi di consegna, aumento del volume della produzione in rapporto al numero dei dipendenti); risparmio dei fattori produttivi (riduzione dei turni, dello straordinario, delle assenze, dei consumi energetici e dei tempi di consegna); evoluzione dell’organizzazione aziendale (miglioramento dell’efficacia del mansionario, integrazione delle competenze, flessibilizzazione degli orari di lavoro, riorganizzazione dell’orario ordinario di lavoro, ricorso allo smart-working) (14).
Articolo VI – Viene liberalizzato il pagamento dei lavoratori tramite azioni aziendali, consentendo che queste possano sostituire il pagamento in denaro dei premi di risultato, previo parere consensuale da parte del lavoratore. In tal caso, fino ai 1.500 € annui il premio in azioni viene detassato del 50% (per il 2025). Il costo dell’operazione è stimato in 21 milioni di € di soldi pubblici. Si noti che in base a una vecchia disposizione (15) i pagamenti in azioni, anche quando siano erogati in sostituzione di altre componenti salariali (come, per l’appunto, i premi di risultato), non concorrono a formare reddito da lavoro dipendente. Perciò la volontà del legislatore è chiaramente quella di persuadere il lavoratore a scegliere questa forma di pagamento.
A nostro parere, un altro fattore di rischio è dato dalla possibilità che l’azienda stabilisca di corrispondere regolarmente i premi di produttività in azioni, il valore delle quali è però variabile, o addirittura che subordini il riconoscimento degli aumenti di produttività ottenuti dai lavoratori all’eventualità che si registri una crescita parallela del rendimento finanziario della società.
Un ulteriore e grosso rischio è intrinseco alla stabilità finanziaria della società. Anni fa alcuni lavoratori e utenti di un istituto di credito toscano ci raccontarono di aver scambiato parte dei premi di risultato e i loro risparmi con le azioni della banca, perché era stato chiesto loro di farlo. Questa, quando era in auge, faceva da tesoreria ad alcuni grandi enti pubblici della zona per migliaia di dipendenti e sponsorizzava molte attività sportive (abbandonate velocemente col sopraggiungere dello stato di crisi…). In seguito, i vertici di questo Istituto vennero commissariati e trascorsero anni prima che l’Istituto venisse acquistato da un’altra banca. Solamente ora, a distanza di anni, è iniziata la restituzione dei soldi per dipendenti e clienti (ma senza adeguamento all’inflazione).
Articoli VII e VIII – Si disciplina l’istituzione di commissioni paritetiche, composte «in eguale numero da rappresentanti dell’impresa e dei lavoratori, finalizzate alla predisposizione di proposte di piani di miglioramento e di innovazione dei prodotti, dei processi produttivi, dei servizi e dell’organizzazione del lavoro».
Attualmente le commissioni paritetiche sono di norma previste e configurate dai Ccnl (stipulati dalle organizzazioni sindacali “comparativamente più rappresentative” (16)), e assumono forme diverse nei vari casi. Se, ad esempio, all’art. 9 il Ccnl dei metalmeccanici prevede che possa essere richiesta la consultazione (sui temi previsti dalla Legge che stiamo esaminando – compreso quello dell’innovazione, che tante ricadute ha sul benessere e sui ritmi di lavoro personali – e anche su altri, di interesse specifico per i lavoratori), il Ccnl degli Enti Locali prevede, all’art. 6, l’istituzione di una Commissione paritetica per l’innovazione, con competenze che tutelano la forza-lavoro meglio del testo di legge meloniano. Nonostante, per i lavoratori, il riconoscimento di un diritto al confronto paritetico in un Ccnl di comodo sia sempre assolutamente insufficiente per rivendicare una maggiore democrazia nell’articolazione dei turni e dei carichi di lavoro attraverso la contrattazione del funzionamento dell’algoritmo, della sua applicazione, dei parametri di produttività aziendali o dei metodi di misurazione della produttività (17)… ciononostante, appunto, disciplinare la questione del diritto d’informazione nella normativa nazionale in maniera così vaga e poco definita potrebbe nascondere il tentativo di trasformare la contrattazione sindacale in “consultazione” coi sindacati. Una consultazione a cui, stando alle norme precedenti, le imprese non saranno mai obbligate: «Il datore di lavoro non è obbligato a procedere a consultazioni o a comunicare informazioni che, per comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive siano di natura tale da creare notevoli difficoltà al funzionamento dell’impresa o da arrecarle danno» (18).
È il caso di sottolinearlo: un aspetto cruciale di questa Legge, tale da evidenziarne la sostanza antidemocratica, sta nell’assenza pressoché totale di disposizioni regolatorie dei rapporti fra rappresentanze sindacali e lavoratori cooptati negli organismi dirigenti. Così facendo, sembra che per mezzo di costoro gli organismi dirigenti acquisiscano il diritto di “invadere” il terreno di Rsu ed Rsa. Sarebbe forse un caso che la partecipazione dei lavoratori sia concessa a «referenti della formazione, dei piani di welfare, delle politiche retributive, della qualità dei luoghi di lavoro, della conciliazione e della genitorialità nonché quelle dei responsabili della diversità e dell’inclusione delle persone con disabilità»? A parte i ruoli attualmente inesistenti (!), come quello del responsabile per la genitorialità (che dovrebbe interessarsi di quelle forme di welfare aziendale deputate al sostegno della maternità), risalta l’assenza dei rappresentanti sindacali e, addirittura, del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza! È chiara, quindi, la natura puramente consultiva del confronto con l’azienda.
Articolo IX – Il ragionamento precedente trova conferma nel presente Articolo. Si chiarifica come le norme di Ccnl in essere vengano tutelate a prescindere dal contenuto della Legge; tuttavia la vaghezza sia dei Ccnl nel definire bilanciamenti dei rapporti di forza in sede di discussione, sia del testo in esame nel proporre un modello diversamente regolato di organismo paritetico, conduce a una sorta di sovrapposizione normativa fra Ccnl e rappresentanze sindacali, da un lato, e Legge e organismi “paritetici” dall’altro.
Se, come abbiamo detto, in generale la norma preme in direzione della consultazione bilaterale, l’Articolo 9 disciplina la possibilità, per gli imprenditori, di richiedere una consultazione preventiva a Rsu/Rsa o, in mancanza, ai singoli lavoratori. Purché – si badi bene – «nell’ambito di commissioni paritetiche».
Si configura, pertanto, una sorta “doppio binario” per la consultazione bilaterale: da un lato quella nuova, corporativa, proposta da Governo e imprese; dall’altro quella vecchia, concertativa, che è stata depotenziata nel corso del tempo e che la nuova Legge marginalizza, al fine di renderla residuale (19). Il fatto, poi, che le consultazioni con le rappresentanze sindacali potranno «fornire materiali ed elementi utili al tavolo contrattuale» è una conferma di quanto diciamo: l’impianto proposto dalla Legge individua nella partecipazione alla contrattazione con contenuti propri – ossia diversi da quelli avanzati dalla parte datoriale – un compito accessorio e opzionale.
Ora, è vero che ai Ccnl viene lasciato l’onere di definire i parametri per la richiesta, le modalità, la periodicità e gli oggetti del confronto lavoratori-azienda, ma il rinvio alla contrattazione nazionale troppo spesso serve per evitare di evitare di fare concessioni a chi lavora: così come si è rinunciato a stabilire un salario minimo rinviando la definizione delle retribuzioni ai Ccnl di settore, in questo caso il contratto nazionale potrebbe essere usato per introdurre surrettiziamente regole capestro in materia di diritto di informazione e contrattazione – come del resto è avvenuto in questi anni, con la erosione del potere contrattuale iniziata proprio dalla contrattazione di primo livello.
Articoli X e XI – Si rende più chiara la configurazione di questo “doppio binario”. Innanzitutto vengono descritte le modalità di convocazione (a mezzo PEC) della commissione paritetica di cui all’art. 9. La relativa procedura di consultazione potrà concludersi «anche in caso di mancato parere scritto da parte dei rappresentanti dei lavoratori» (!) e, come se non bastasse, dovrà svolgersi «con vincolo di riservatezza rispetto alle informazioni la cui divulgazione risulti in contrasto con norme di legge o con quanto stabilito dai contratti collettivi». Per controversie, i componenti delle commissioni paritetiche possono rivolgersi alla Commissione nazionale permanente per la partecipazione dei lavoratori, istituita ai sensi dell’art. 13.
Nel finale, l’articolo permette alle aziende di avviare i “piani di miglioramento e di innovazione” una volta completato il processo consultivo (ci si riferisce nuovamente a tutte le commissioni paritetiche, senza distinzioni…). Sorgono ulteriori dubbi sulla natura democratica del provvedimento, dal momento che potrebbe crearsi un conflitto con altre norme di Ccnl sul diritto d’informazione: la Legge consente di avviare i piani di sviluppo una volta completato il processo di consultazione aziendale, ma alcuni Ccnl impongono una contrattazione preventiva con le rappresentanze sindacali. Come abbiamo visto, però, il testo di Legge fornisce agli imprenditori nuove maniere per “consultare” i sindacati, che – a seconda del Ccnl – potrebbero essere considerate “alternative” alle tradizionali sedi di contrattazione. Vero, pure, che secondo l’Articolo XI «Sono fatte salve le condizioni di miglior favore previste dai contratti collettivi». Ciò conferma l’esistenza di un “doppio binario” giurisprudenziale e la natura residuale (almeno nelle intenzioni governative) di quello di natura concertativa. Anche a destra si è parlato – sia pur soltanto per il vezzo di una discussione accademica – del «rischio di una sovrapposizione, se non proprio collisione, tra la partecipazione dei lavoratori garantita per il tramite di loro delegati aziendali e la “partecipazione” acquisita dalla rappresentanza sindacale per il tramite della contrattazione collettiva» (20).
Articolo XII – I lavoratori cooptati dall’azienda per la partecipazione alle Commissioni paritetiche (escluse quelle a cui partecipano i rappresentanti sindacali) e al Comitato di sorveglianza dovranno svolgere almeno dieci ore di formazione annua, indicativamente – a nostro avviso – su questioni concernenti la gestione d’impresa e il management (si parla di conoscenze e competenze «tecniche, specialistiche e trasversali»). Questo articolo colpisce soprattutto i sindacati concertativi: che sia per i cambi appalto o per la riallocazione di parte della forza-lavoro su mansioni maggiormente specializzate, che richiedono competenze aggiuntive, spesso le organizzazioni sindacali hanno problemi a “mantenere” una base di lavoratori iscritti all’interno di una singola sede aziendale per molti anni. Per i confederali, di conseguenza, uno degli obiettivi era quello di sviluppare un efficace sistema interno di formazione delle competenze, per poi riuscire a convincere l’imprenditore di possedere e poter offrire le competenze necessarie all’impresa e giocare il ruolo del formatore di manodopera specializzata (come spesso fanno i sindacati del Centro e del Nord Europa). Ma potremmo fare un discorso analogo anche per quanti si sono buttati nel business della formazione (e parliamo di patronati, strutture sovente legate o riconducibili ai sindacati).
Articolo XIII – Viene istituita la Commissione nazionale permanente per la partecipazione dei lavoratori, individuata come organo interno al Cnel e deputata a risolvere le controversie sui diritti connessi alla consultazione. Sarà composta da rappresentanti dei sindacati cosiddetti “rappresentativi” (visto, del resto, che tutte le novità fino ad ora analizzate sono a loro esclusivo appannaggio). Si tratta, tuttavia, di un ente bilaterale e che prevede la sola partecipazione dei sindacati comparativamente più rappresentativi, a prescindere cioè dalla loro effettiva rappresentanza in azienda (dove un sindacato di base potrebbe avere maggiori consensi). Pertanto non può assolvere a un ruolo di tutela specifico per i lavoratori, che sarebbe stato utile per ritrovare un bilanciamento dei rapporti di forza tra imprenditore e dipendente almeno nell’ambito delle controversie giuridiche. Si noti, infine, che il riferimento al Cnel è limitato alle controversie: manca «un punto di raccordo stabile tra il decisore politico e la rappresentanza delle categorie produttive» e questo perché la Legge mira, come noi diciamo, a estinguere la rappresentanza organizzata dei lavoratori. Non siamo di fronte a un testo incompleto, assolutamente vago e approssimativo. E qualora dovesse esserlo, in ogni caso sarebbe frutto di un disegno politico ben preciso: favorire la “partecipazione” dei lavoratori, l’“inclusione” dei dipendenti, la “consultazione” dei sottoposti per soggiogarli ed eliminare la rappresentanza sindacale e, con essa, il conflitto.
Articolo XIV – Si estende l’ambito di applicazione della Legge alle società cooperative. Queste, in Italia, sono molto presenti in alcuni settori dove possono sfruttare la deregolamentazione normativa del lavoro e tanti meccanismi di irregolarità contrattuale per abbassare il salario. Con questo articolo, pertanto, il Governo rischia di dare “il La” all’utilizzo di incentivi e forme di corresponsione di emolumenti poco trasparenti e finalizzati alla divisione della forza-lavoro al suo interno. Vedremo come agiranno gli imprenditori di cooperativa. Dal momento, però, che la Legge è profondamente impari nel regolare i rapporti di forza tra i pochi (o il solo) rappresentante dei lavoratori e gli altri membri dei Consigli direttivi, non sembra condivisibile l’idea che l’articolo 14 possa riuscire ad estendere, «nell’interesse dello stesso sistema cooperativo, il legame tra principio mutualistico e strumenti della partecipazione» (21). Per favorire questo legame non sarebbe stato meglio porre finalmente un limite alle odiose e malviste quote azionarie, la famosa conditio sine qua non richiesta dalle cooperative per poter lavorare al loro interno? Alcune di queste quote sono puramente simboliche, altre constano di poche centinaia di €, ma in moltissimi casi si arriva addirittura a chiedere diverse migliaia di € a dei lavoratori e delle lavoratrici che, a fronte di un lavoro precario, sottopagato e poco tutelato, in caso di difficoltà finanziarie della cooperativa rinunciano spesso a tredicesima e quattordicesima o ai premi di risultato.
È chiaro, allora, che la “partecipazione gestionale” proposta dalla Legge possa essere interpretata anche come un tentativo di estendere questa triste esperienza ad altri ambiti di lavoro, determinando un generale arretramento delle condizioni d’impiego.
II. Commento politico
La strategia politica degli imprenditori sembra orientata a ridurre il salario a una variabile dipendente dai profitti di impresa, per ottenere in prospettiva un abbassamento netto degli stipendi erogati e maggior controllo sui dipendenti. Non è dunque vero che siamo di fronte soltanto a «una tendenza da tempo in atto che potrà ora stabilizzarsi e anche consolidarsi grazie alla legge» (22): si tratta di un vero e proprio “giro di boa”. Che ha un costo, perché in un ecosistema economico come quello italiano – caratterizzato dalla presenza cospicua di aziende medie e piccole, aventi capitali ridotti – è difficile ottenere dai capitalisti un comportamento uniforme senza concedere loro adeguati “incentivi”; pertanto, tramite gli sconti fiscali vedremo scaricare ulteriori oneri sulla fiscalità generale. In realtà non si tratta di una somma eccessiva per il bilancio statale, ma bisogna comunque sottolineare come il Governo abbia aumentato il costo della Legge di 21 milioni, rispetto alla proposta Cisl, arrivando a 71 totali: quando ci sono esigenze imprenditoriali i soldi si trovano. E le riforme vengono fatte.
Quella in esame vede affermarsi il principio che le norme giuslavoriste possano essere superate e piegate ai voleri aziendali. Lo attesta l’assenza pressoché totale di disposizioni prescrittive e meccanismi regolatori nei vari articoli che la compongono. Se oggi si mira a coinvolgere direttamente e massicciamente i lavoratori e le lavoratrici, le forme di partecipazione vengono concesse solo a patto di non contrastare i modelli organizzativi e gestionali della produzione, i tempi e le modalità di lavoro e le dinamiche contrattuali dei dipendenti.
II.a La partecipazione agli utili
La partecipazione agli utili d’impresa rappresenta il tentativo di aumentare il grado di adesione alla vision aziendale (il che permetterebbe di gestire al meglio le implementazioni tecnologiche di processo): «Si è più volte mostrato, infatti, come cambiamenti importanti dei processi che implichino modifiche organizzative sostanziali sulle modalità di lavoro siano difficilmente implementabili senza qualche forma di coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori che dovranno poi essere effettivamente impegnati negli stessi» (23).
La vision ci è stata descritta così da un quadro di un’importante azienda che offre formazione manager e consulenze alle grandi imprese: vision significa «come mi immagino migliore il futuro grazie a ciò che fa l’azienda» (24) e, del resto, l’adesione del lavoratore ai progetti imprenditoriali per i quali lavora è da decenni un agognato obiettivo padronale, conseguito tramite riunioni a inizio o fine turno per condividere risultati e proposte aziendali, team-work misto operai/quadri, premi di risultato, welfare aziendale e via dicendo… nonché anche attraverso la partecipazione agli utili.
Condividerne una piccola parte con la forza-lavoro può essere visto anche come una misura contro il turn-over, in quanto fidelizza il lavoratore alla propria impresa. Tuttavia non esultassero troppo i piccoli imprenditori che sperano nella scalata sociale: non è per bar, piccole attività e produzioni semi-artigianali che il Governo ha pensato la misura.
La Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa, assieme a Confartigianato, sono rimaste deluse dal mancato inserimento di «strumenti ad hoc diretti ad agevolare, tramite il coinvolgimento dei dipendenti e la loro partecipazione ai destini dell’impresa, il ricambio generazionale e la trasmissione dell’azienda» (25), laddove probabilmente tali strumenti erano stati individuati nelle forme di azionariato diffuso per la rigenerazione finanziaria e/o la condivisione della piccola impresa, oltre che per il passaggio generazionale della proprietà artigiana. Inoltre hanno chiesto maggiori sconti fiscali (26). È un peccato che le imprese a conduzione familiare, assieme alle Partite IVA senza dipendenti, si facciano irretire dalle illusioni capitalistiche di un possibile avanzamento sociale. Del resto, oggi non gli è dato di ascoltare altri discorsi se non quelli sull’esistente come migliore dei mondi possibili. Non pervenuta è una sinistra che invece un tempo, forte del suo radicamento nella classe operaia, riusciva a parlare anche ad altri settori sociali.
La distribuzione di una quota degli utili riprende il modello tedesco di relazioni industriali, ma lo fa in un contesto storico e con rapporti di forza completamente diversi e nella consapevolezza, da parte della classe dirigente, che oggi il capitale necessita più di ieri di rimuovere il conflitto, abbassare il costo del lavoro e aumentare la produttività.
Il modello tedesco, essendo nato in un altro contesto, ha visto spostarsi sempre più i sindacati verso gli interessi imprenditoriali, al punto che nel 2023, a fronte di oltre 60.000 esuberi nell’industria automobilistica, il sindacato IG Metall ha «dichiarato di condividere la riduzione di personale entro una logica di contrazione generale dei costi di produzione, invocando al contempo l’aiuto pubblico per limitare i danni» (27).
Conviene? Nel 2024 l’industria manifatturiera tedesca ha perso 120.000 posti di lavoro, da aggiungersi ad altri 100.000 previsti nel 202528. Le ricette proposte da parte imprenditoriale? «Taglio strutturale dei costi energetici (…), Abolizione definitiva del contributo di solidarietà (…), Drastica riduzione delle imposte sulle società (…)» (29). Comunque la si voglia vedere sulla Germania, per quanto ci siano degli aspetti in comune fra la situazione di quel paese e la Legge in esame, è chiaro che non ci stiamo muovendo solo in direzione di un modello di contrattazione totalmente appiattito sugli interessi aziendali, ma anche proprio verso il superamento (marginalizzazione) della contrattazione in generale.
A nostro avviso la partecipazione agli utili fa il paio con la welfarizzazione dei premi e, in generale, con l’allargamento del welfare aziendale (a scapito dei livelli salariali, nonché della sanità e della previdenza pubbliche). Questa politica salariale ricorda però il modello di welfare universalista «anglo-scandinavo» (30), fondato su misure assistenziali di sicurezza sociale che non si basano sul reddito da lavoro (come in Italia, dove ancora esistono e resistono Tfr, Naspi e, nonostante tutto, una previdenza relativamente robusta e ancora prevalentemente pubblica) ma sulle condizioni di vita. I vari “bonus” italiani (bonus bebè, bonus Renzi, ecc.), unitamente alla contrazione del welfare lavoristico, rappresentano un tentativo di cambiamento del modello di stato sociale in favore di quello nord-europeo, che risulta più favorevole agli imprenditori. La partecipazione agli utili aziendali, perciò, prende spunto dal modello di contrattazione tedesco ma andrebbe vista come una componente del processo di cambiamento del modello di welfare state. I sistemi di benefit e la riduzione delle imposte fiscali transiteranno attraverso il sistema di welfare andando a ridisegnare la dinamica contrattuale complessiva. Purtroppo, però, neanche il welfare nordico potrà rappresentare un’ancora di salvezza: per i Paesi del nord-Europa, all’epoca, si trattava di un compromesso neokeynesiano, ma la sua estensione, oggi, ai paesi col welfare lavoristico ha invece un significato diverso (recupero di margini di competitività), in ragione delle ben note difficoltà economiche imprenditoriali.
II.b Le scelte dei sindacati confederali
Dal punto di vista sindacale il pagamento dei premi in azioni e la condivisione degli utili aziendali costituiscono uno strumento piuttosto pericoloso, in quanto costringono i lavoratori a non avanzare rivendicazioni troppo avanzate perché sarebbero in piena contrapposizione con gli interessi aziendali – a cui, in parte, il dipendente potrebbe sentirsi legato. Ciononostante ci sarebbe interesse, da parte di Cgil e Uil, a contrattare quantomeno un modello di co-gestione della forza-lavoro. Purtroppo per loro, la Cisl li ha scavalcati e ha cercato di accreditarsi presso industriali e Governo come l’unico sindacato in grado di fare da “ponte di trasmissione” delle politiche governative ai lavoratori. Una funzione di supporto al potere esecutivo che nella sua lunga storia, incominciata nel 1950, è risultata prevalente e che spesso è stata svolta assieme alle Acli (31) e ad altri corpi intermedi filo-padronali.
Non per niente Fumarola, Segretario Cisl, ha dichiarato che non avrebbe votato al Referendum promosso dalla Cgil, dal momento che il «Lavoro è cambiato, servono tutele nuove» (32). Il frutto di una pluridecennale coerenza politica o di un opportunismo sfacciato? Ai posteri l’ardua sentenza. Noi ci limitiamo a constatare che mentre scriviamo, pochi giorni dopo la fine del Referendum, è appena giunta la notizia che Luigi Sbarra, ex Segretario Cisl, sostituirà Raffaele Fitto come nuovo Sottosegretario alla presidenza del Consiglio per il Sud (33)… La Cisl, dunque, è parte integrante di questo processo di disarticolazione delle conquiste ottenute dal movimento operaio. Solo la miopia della Cgil – e una buona dose di autolesionismo – non induce a rompere la gabbia della cosiddetta “unità sindacale”, forse perché in quel sistema concertativo ampi settori della stessa Cgil sono fortemente invischiati (facciamo riferimento a previdenza integrativa, enti paritetici e “carrozzoni vari”).
Comunque la si voglia vedere, c’è un effettivo sfondamento della destra nel terzo settore: il Governo ormai dialoga direttamente con le associazioni. La Cisl in ciò gli è utile perché può fungere da cavallo di troia. Inoltre, il Pd si è astenuto alla votazione sulla Legge in esame, per cui la Cgil, uscita sconfitta dal Referendum, dovrà ora cercare un adeguamento sul percorso, vincente, della Cisl. È normale: a partire dal Jobs Act la concertazione è diventata, realmente, meno funzionale. A confermare quanto da noi osservato è la stessa destra, per bocca di uno dei suoi commentatori più autorevoli del mondo del lavoro: «[La Cisl] Ha cercato un rapporto con il governo anche a costo di macchiare la storia della sua autonomia, ne è diventato un interlocutore privilegiato in cambio di un premio, l’approvazione della legge sulla partecipazione» e favorendo «uno sfondamento nel campo dei corpi intermedi per Giorgia Meloni» (34). C’era poco da macchiare, ma è comunque vero che la Cisl si sia venduta al Governo.
Ad esempio, laddove il sindacato proponeva una precisa governance della partecipazione dei lavoratori all’impresa, il Governo ha risposto lasciando a quest’ultima il diritto di scegliere se coinvolgere, o meno, uno o più lavoratori negli organismi direttivi. O ancora: se la Cisl chiedeva una consultazione obbligatoria tra azienda e sindacati da svolgersi prima di organizzare la partecipazione dei lavoratori all’impresa, per tutte le aziende con più di 50 dipendenti e per gli istituti di credito, le banche e le aziende che forniscono servizi pubblici essenziali, nella Legge finale il Governo ha semplicemente eliminato il riferimento (nonché l’elenco delle materie che avrebbero potuto essere oggetto di consultazione). Non meno grave, poi, è stata l’eliminazione della figura del Garante della sostenibilità sociale delle imprese, cui la Cisl ha proposto di sostituire una semplice certificazione di “impresa sostenibile”, analoga alle molte già esistenti – specie in tema di sicurezza sul lavoro e sostenibilità ambientale –: l’azienda paga per ottenere la certificazione e tutti i problemi vengono risolti, come chi lavora in fabbrica o nella logistica evoluta sa benissimo.
Riguardo i “tagli” fatti dal Governo alla proposta Cisl, citiamo ancora: il principio per cui l’adesione del lavoratore ai piani finanziari è volontaria e non può essere fonte di discriminazione; la possibilità che i contratti collettivi destinino una parte della retribuzione aggiuntiva – dovuta alla partecipazione del lavoratore agli utili a quella ordinaria –, fino al 15%; gli obblighi di trasparenza contenuti nell’originario articolo IX.
Ma non è corretto lasciar intendere che la Cisl si sia ‘venduta’ a seguito delle pressioni del Governo: la Cisl ha scelto di vendersi in partenza, prima di presentare la Legge d’Iniziativa Popolare. Nel 2003, infatti, era stato istituito un Fondo speciale per l’incentivazione della partecipazione dei lavoratori nelle imprese, con dotazione di 50 milioni di € (gli stessi della proposta originaria Cisl… avranno dimenticato di adeguarli all’inflazione?). Questo fondo, tuttavia, non venne mai utilizzato dalle imprese. Forse uno dei problemi era che risultava “troppo paritetico”, in quanto composto da «dieci esperti, due in rappresentanza del Ministero del lavoro e otto in rappresentanza delle associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale» (35). Ebbene, la proposta Cisl si proponeva fin dall’inizio di risolvere i problemi della vecchia Legge, eliminando quanto non risultava gradito agli imprenditori.
II.c L’Articolo 46 della Costituzione
La Legge che stiamo esaminando è stata concepita come norma attuativa dell’Articolo 46 della Costituzione, che recita: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».
L’«elevazione economica e sociale del lavoro» viene dunque concepita come variabile dipendente dalle «esigenze della produzione». Non è possibile che questo avvenga, in quanto gli interessi dell’imprenditoria sono diametralmente opposti a quelli della forza-lavoro. Non per niente questo Articolo è il frutto di un compromesso ricercato dai padri costituenti, in un contesto storico e sociale ben diverso da quello attuale.
Il confronto, avvenuto essenzialmente fra comunisti e democristiani, si è verificato non tanto sulla prima parte dell’Articolo, che per l’appunto riflette la necessità di un compromesso politico, quanto sul termine «collaborare». Questo perché viene lasciata appositamente vaga la formulazione delle modalità partecipative dei lavoratori all’azienda e, di conseguenza, il termine usato per connotarla assume maggiore importanza: «Non abbiamo voluto determinare a priori la forma e il modo di questa partecipazione, e ciò allo scopo di non confiscare a nostro profitto quella libertà di decisione che deve essere lasciata intatta al legislatore futuro» (36). Questa era la posizione di compromesso del Partito Socialista. Su proposta della Dc il termine «collaborare» venne preferito a «partecipare», che compariva nella formulazione originaria dell’Articolo, in quanto avrebbe definito una partecipazione alla pari. Questo fu accettato anche dal Pci: il termine «collaborare» assume «il significato di partecipazione attiva dei lavoratori alla gestione dell’azienda, e quindi allo sviluppo dell’azienda stessa nell’interesse dei lavoratori e del Paese» (37). Si tratta della cosiddetta “via italiana al socialismo”, della togliattiana “democrazia progressiva”. Tuttavia il Pci preferiva parlare di collaborazione, anziché di partecipazione, per sconfessare l’idea di una partecipazione economica agli utili d’impresa e puntare invece a una pura partecipazione gestionale. Tra l’altro, la questione sindacale non era stata presa in considerazione in relazione alla stesura di questo Articolo. La democrazia aziendale partecipativa, dunque, con ogni probabilità veniva ricondotta al livello dei rapporti fra sindacato e azienda.
Purtroppo oggi si parla di collaborazione economica e il termine scelto nell’Articolo – e ripreso nella Legge attuale – inizia a stare stretto anche alla classe dirigente.
Secondo Confcommercio (38) sarebbe preferibile il termine «coinvolgimento», che denota meglio di «collaborazione» la gerarchia dei rapporti fra impresa e lavoratore: è l’imprenditore che coinvolge il dipendente; non sono, semplicemente, “due soggetti che collaborano”. Non per nulla l’idea di Confcommercio è di ricondurre al concetto legislativo in esame tutta una serie di pratiche normalmente facenti parte dell’organizzazione del lavoro in azienda: informazione, colloqui individuali, team-work…, nel tentativo di sottrarle gradualmente alla contrattazione sindacale e di farle dipendere dagli organismi dirigenti che hanno cooptato uno o più lavoratori.
In conclusione: ci troviamo di fronte una Legge neo-corporativa che punterà a stravolgere le relazioni tra impresa e sindacato, nel tentativo di superare la contrattazione in favore della pura e semplice consultazione coi lavoratori o i loro rappresentanti. La Cgil e la Uil hanno avvertito il rischio di essere tagliate fuori. E hanno perciò rilevato la mancanza, nel testo, di indicazioni prescrittive per i datori di lavoro sulla collaborazione dei lavoratori.
Si tratta di una Legge pessima, dunque, e totalmente schiacciata sugli interessi della lobby imprenditoriale.
Note:
1 DdL 1407.
2 E. MASSAGLI, Peculiarità e contenuti della proposta Cisl. Roma: Edizioni Lavoro, 2023, Fondazione Ezio Tarantelli, Working paper 27/23, p. 21.
3 Proposte nn. 300, 1184, 1299, 1310, 1573 (proposta Cisl) e 1617.
4 «Art. 46. – Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».
5 Art. 2409 (da octies a undevicies).
6 M. DAGNINO, Partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al Consiglio di Sorveglianza (articolo III). In “M. TIRABOSCHI, a cura di, Primo commento alla legge di iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratori (approvata dal Parlamento il 14 Maggio 2025), Adapt University Press, 2025, pp. 109 e 110”.
7Il richiamo legislativo è presente nel testo di legge, giacché all’art. 3, c. 2 ci si rifà all’art. 2409-duodecies del Cod. Civile, c. 10, lett. “a”, che a sua volta ricorre all’art. 2382 del Cod. Civile, che è collegato al 32-bis del Cod. Penale in quanto fa riferimento agli “interdetti”.
8 Come già prescritto dall’art. 2409-septiesdecies del Cod. Civile.
9 La contrattazione collettiva in Italia (2022), XI Rapporto ADAPT. Adapt University Press, 2023, p. XXIII.
10 La proposta Cisl parlava del 15%.
11 L. 197/2022, art. 1, c. 63.
12 L. 208/2015, art.1, c. 188; D. Interm. 25 Marzo 2016 (norma attuativa).
13 Ciò, a testimonianza di come persino dietro la rivendicazione del centro-sinistra sulla riduzione dell’orario a parità di salario e di produttività individuale si nascondano mire di aumento della produttività, da ottenersi per l’appunto attraverso la riorganizzazione aziendale del lavoro. Cfr. E. GENTILI, F. GIUSTI, Riduzione dell’orario di lavoro: in che direzione si sta procedendo?, 17 Agosto 2024, https://cub.it/riduzione-dellorario-di-lavoro-in-che-direzione-si-sta-procedendo/.
14 Fonte: Ipsoa, 2023.
15 L. 208/2015, art. 1, c. 184-bis, lett. “c”. Cfr. anche D.P.R. 917/1986, art. 51.
16 Si tratta di una nozione giuridica, introdotta dalla L. 549/1995, che determina l’esclusione di tutti i sindacati “minori”. La precedente nozione di sindacato “maggiormente rappresentativo” consentiva di includere tutte le organizzazioni che presentassero i requisiti minimi di estensione organizzativa sul territorio nazionale, partecipazione alle contrattazioni, diffusione sui posti di lavoro, ecc., indipendentemente dalla compresenza di sindacati più grandi. La modifica sembra adatta a scongiurare l’inclusione di accordi non funzionali ad accrescere utili aziendali e produttività, a scongiurare il protagonismo del sindacalismo conflittuale.
17 Configurare il premio in riferimento a un tot. di produzione determinato non è grave quanto stabilirlo in ragione del raggiungimento di una data percentuale del potenziale produttivo “assoluto” dell’azienda, calcolato per via informatica dagli imprenditori (spesso utilizzando dei Kpi – che sono degli indicatori di performance – in associazione a modelli di rilevazione dati sui processi di lavoro).
18 D. Lgs. 25/2007, art. 5, c. 2.
19 È interessante, nel merito, il commento di Tiraboschi: «Manca nella legge, anche con riferimento agli spazi di regolazione affidati alla contrattazione collettiva, un vero e proprio obbligo giuridico a contrattare (…). La natura della legge è, dunque, promozionale nel senso che mira a regolare compiutamente e stabilizzare, in termini giuridici e istituzionali, le molteplici (ma sin qui frammentarie) esperienze di partecipazione dei lavoratori emerse nella prassi». Non coglie la volontà politica celata dietro queste “mancanze”, ma conferma parte del nostro discorso, pur essendo un intellettuale della controparte padronale. M. TIRABOSCHI, Finalità e oggetto (articolo I). In “M. TIRABOSCHI, a cura di, op. cit., pp. 5 e 6”.
20 M. TIRABOSCHI, op. cit. In “M. TIRABOSCHI, a cura di, op. cit., pp. 28-29”.
21 M. TIRABOSCHI, Applicabilità alle società cooperative (articolo XIV). In “M. TIRABOSCHI, a cura di, op. cit., p. 257”.
22 M. TIRABOSCHI, Finalità…op. cit. In “M. TIRABOSCHI, a cura di, op. cit., p. 54”.
23 F. SEGHEZZI, Introduzione. In “M. TIRABOSCHI, a cura di, op. cit., p. XVI”.
24 Intervista del 01/08/2022. In “E. GENTILI, L’attacco degli imprenditori. Roma: Sensibili alle foglie, 2025, p. 496”.
25 M. TIRABOSCHI, Finalità…op. cit. In “M. TIRABOSCHI, a cura di, op. cit., p. 43”.
26 In opposizione alla Risoluzione n. 54/E del 25 Settembre 2020 dell’Agenzia delle Entrate.
27 F. GIUSTI ed E. GENTILI, La mattanza occupazionale nelle aziende meccaniche tedesche (e non solo), 9 Dicembre 2023, https://giuliochinappi.wordpress.com/2023/12/09/la-mattanza-occupazionale-nelle-aziende-meccaniche-tedesche-e-non-solo/.
28 F. LUGANO, Germania: crollo occupazione nel settore manifatturiero, 31 Marzo 2025, https://scenarieconomici.it/germania-crollo-occupazione-nel-settore-manifatturiero-situazione-servirebbe-un-cambio-di-politiche-che-non-ci-sara/.
29 Ibidem.
30 M.FERRERA, V. FARGION, M. JESSOULA, Alle radici del Welfare all’italiana. Origini e futuro di un modello sociale squilibrato. Venezia: Marsilio Editori, 2012, p. 235.
31 Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani.
32 S. PALAZZO, Fumarola (Cisl) “Non voterò ai referendum, strumento non adeguato” / “Lavoro è cambiato, servono tutele nuove”, 11 Maggio 2025, https://www.ilsussidiario.net/news/fumarola-cisl-non-votero-ai-referendum-strumento-non-adeguato-lavoro-e-cambiato-servono-tutele-nuove/2832993/.
33 REDAZIONE ANSA, Meloni propone ex leader Cisl Sbarra sottosegretario al Sud, 12 giugno 2025, https://www.ansa.it/sito/notizie/flash/2025/06/12/-meloni-propone-ex-leader-cisl-sbarra-sottosegretario-al-sud-_172889b0-6863-4b7a-842d-9d49e9a2b9eb.html.
34 D. DI VICO, Un Mattarella non fa primavera, «il Foglio», 1° Maggio 2025.
35 L. 350/2003, art. 4, cc. 112-115.
36 G. GHIDINI, Discorso alla seduta dell’Assemblea costituente del 14 Maggio 1947. In “M. TIRABOSCHI, a cura di, op. cit., p. 26”.
37 G. DI VITTORIO, Discorso alla seduta dell’Assemblea costituente del 14 Maggio 1947. In “M. TIRABOSCHI, a cura di, op. cit., p. 26”.
38 CONFCOMMERCIO, Memoria dell’audizione al Senato, presso la X Commissione, del 25 Marzo 2025, p. 2.