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Parlateci della erosione del potere di acquisto di salari e pensioni

Autori: Federico Giusti, Emiliano Gentili, Stefano Macera

Anni fa, nell’immaginario collettivo si è insinuata l’idea che in molti, e a lungo, avessero vissuto al di sopra delle loro reali possibilità e che gli eccessi d’una generazione si sarebbero inevitabilmente ripercossi su quelle successive. Detto in termini spiccioli, a determinare i problemi dell’oggi sarebbero le pensioni anticipate del passato o i livelli contrattuali degli anni ’60 e ’70, indicati addirittura come causa ultima dei bassi salari odierni.

A noi questa narrazione non hai mai convinto: nella sua genericità, risulta interamente costruita su luoghi comuni. Chi se ne fa portatore non ama comunicare dati né sul numero degli occupati e dei pensionati, né statistiche aggiornate sul rapporto tra pensione percepita e gli ultimi stipendi in età lavorativa, sugli anni versati e sull’effettivo peso dei contributi. Così come non vi sono analisi di parte governativa che mostrino come, a fronte dell’aumento degli anni lavorati, l’assegno previdenziale perde potere di acquisto. Ma se veramente si vuole andare alla radice dei problemi odierni, non rimane che proporre esempi concreti. Ad esempio, i part-time involontari: in Italia, il loro numero risulta di gran lunga superiore rispetto al passato. Ed è la stessa stampa ufficiale, di norma propensa a scaricare tutte le responsabilità sulla forza lavoro, a riconoscere che “più della metà dei 3 milioni di lavoratori e lavoratrici part-time, per l’esattezza il 56,2%”[1], non ha scelto questo specifico rapporto di lavoro. È il sistema produttivo italiano a preferire i contratti di poche ore al tempo pieno, in questo senso volgendo a proprio favore – e anzi alimentando – le disparità di genere che ancor oggi distinguono il Bel Paese. Ora, nel tempo, contratti di questo tipo cosa possono determinare? È evidente: pensioni da fame. Certo, nel caso in questione il problema viene riconosciuto dalle forze politiche di finta sinistra, che sin qui hanno promosso il sistema della precarietà, ma il punto è che certe politiche spregiudicate – e l’attitudine rapace degli imprenditori nostrani – hanno generato una contraddizione con il modo di raccontarsi del nostro Paese. Che cerca in tutti i modi di accreditarsi come avanzato,

nonché capace di garantire l’emancipazione femminile in ogni ambito, salvo poi costringere moltissime donne a una condizione subordinata nel mondo del lavoro.

Ma torniamo alla questione previdenziale. Il sistema volto a calcolare l’importo pensionistico è cambiato e l’età media in cui s’inizia a percepire la pensione si è notevolmente alzata: è sufficiente dare un’occhiata al rapporto annuale INPS per comprenderlo.

Per quanto riguarda le pensioni anticipate di qualche anno or sono, va detto che sono state un’eccezione di cui non va sopravvalutato l’impatto. A essere politicamente determinante è stato un incrocio tra due spinte: una sorta di mossa elettorale, dovuta alla classe politica, e la spinta aziendale al ricambio generazionale. Oggi i nuovi posti di lavoro sono pagati meno e, soprattutto nei primi anni, hanno inquadramenti contrattuali peggiori che in passato.

In un prossimo futuro, “l’uscita da lavoro potrebbe avvenire dopo tredici mensilità in più rispetto alla soglia attuale: quindi, a 68 anni e un mese invece che a 67”[2]. Mentre, per accedere al pensionamento anticipato, sono richiesti ben 41 anni di contributi. Ai nostri genitori, per uscire dal mondo del lavoro con un assegno decente, ne bastavano 35.

Rapporto Inps: disparità evidenti, sale l’età media dei pensionati

Eppure l’incipit del Rapporto annuale Inps appena uscito parla di un aumento dei lavoratori assicurati: “Nel 2024 gli assicurati INPS (vale a dire l’insieme di tutti i lavoratori, dipendenti e indipendenti, ob­bligati ai versamenti previdenziali) hanno superato i 27 milioni, evidenziando un incremento di circa 400 mila unità rispetto al 2023 (+1,5%) e di circa 1,5 milioni rispetto al 2019 (+5,9%)”.

Aumentando i lavoratori, dovrebbe aumentare anche il gettito contributivo, ossia il totale dei versamenti contributivi effettuati, eppure: “Sostanzial­mente stabile, invece, il numero medio di settimane lavorate (circa 43 sia nel 2019 che negli ultimi due anni)”. È probabile, allora, che stia semplicemente aumentando il numero di lavoratori precari e di part-time involontari. Chiaro, dunque, che vi sia una responsabilità imprenditoriale dietro il buco di bilancio previdenziale.

https://www.inps.it/it/it/dati-e-bilanci/rapporti-annuali/xxiv-rapporto-annuale.html

A ben vedere, dunque, l’età previdenziale non si è alzata perché prima si andava in pensione troppo presto. Il punto è che a un certo punto della storia europea le risorse si sono spostate dai redditi al capitale, dal welfare universale alla previdenza integrativa. In questo quadro non ha un carattere neutro l’attività svolta dalla Ragioneria Generale dello Stato. Essa, utilizzando i dati sulla speranza di vita, cerca di far passare per normali, anzi naturali, i continui aumenti dell’età pensionabile. Peccato che quando la speranza di vita decresce, però, gli adeguamenti per il pensionamento vengano puntualmente sospesi con norme ad hoc.

Se invece avessimo fatto pagare maggiori contributi alle aziende, che paradossalmente beneficiano di sempre maggiori detrazioni fiscali, oggi ci ritroveremmo in una condizione diversa. Eppure l’aliquota contributiva per i datori di lavoro non aumenta dal 1996. Considerando che la riduzione della spesa previdenziale va avanti dalla Riforma Amato del 1992, dobbiamo ipotizzare che sia stata fatta una scelta a monte: agire sulla riduzione delle pensioni (uscite) anziché sull’incremento del gettito (entrate).  Una scelta che oltretutto conduce a evidenti disparità negli importi pensionistici. Questi, tanto per tornare a una questione che imbarazza il sistema, si trasformano sovente in divari di genere. Le donne, infatti, mediamente percepiscono assegni pensionistici inferiori del 34% rispetto agli uomini e inoltre, pur essendo poco più della metà (51%) dei pensionati, arriva loro solo il 44% della spesa pensionistica.

E se l’importo lordo mensile medio dei redditi da pensione è cresciuto solo del 4,4% rispetto al 2023, la spiegazione ci pare chiara: pochi occupati rispetto ai pensionati, troppi contratti part-time e un monte contributivo fin troppo modesto.

In un quadro dominato da narrazioni fuorvianti va richiamato il problema principale, spesso occultato o eluso: l’erosione del potere d’acquisto. Basti ricordare che, negli ultimi 5-6 anni, le retribuzioni contrattuali sono cresciute di meno della metà rispetto al costo della vita. Lo abbiamo già sottolineato in precedenza, ma è impossibile non ripetersi: tra i problemi principali vi è il modo in cui vengono siglati o rinnovati i contratti. I sindacati firmaioli, siano essi confederali o autonomi, blaterano di continue conquiste da parte dei lavoratori, ma la verità è un’altra:Le retribuzioni contrattuali tra il 2019 e il 2024 sono cresciute dell’8,3% a fronte di un aumento dei prezzi nei cinque anni del 17,4% e hanno quindi perso oltre nove punti percentuali di potere d’acquisto. È di nuovo quanto emerge dal Rapporto annuale dell’Inps, che sottolinea comegrazie agli interventi sulla fiscalità e i contributi le retribuzioni nette abbiano perso meno punti sul potere d’acquisto. Fatto 100 il valore medio del 2019, spiega l’Inps a proposito delle retribuzioni, si arriva nel 2024 a 108,3.

Inps: nel 2024 retribuzioni contrattuali hanno perso 9 punti potere acquisto dal 2019 – Borsa Italiana

Per non dire, poi, del sistema fiscale: se volessero sfidare l’ingiustizia sociale dovrebbero come minimo ripristinare le vecchie aliquote. Ma questa idea sembra un tabù per Meloni, che incredibilmente continua ad attribuire una valenza salvifica – tale cioè da ridurre le disuguaglianze – ai suoi interventi in materia. Lo sta facendo anche in questi giorni, per coprire uno smaccato tentativo di rendere più difficile la riscossione dei crediti da lavoro (Tfr, indennità varie, ecc.).

Attraverso i suoi parlamentari, il Governo ha presentato un emendamento al DdL 1561 da approvare in Parlamento entro metà agosto. Questo emendamento prevede: il rispristino della prescrizione quinquennale per i crediti da lavoro in costanza del rapporto contrattuale, con l’aggiunta della “prescrizione-flash” in caso di mancato deposito del ricorso in Tribunale entro 180 giorni;

l’indicazione al Giudice che la retribuzione stabilita dai contratti collettivi firmati dai sindacati comparativamente più rappresentativi si debba sempre presumere proporzionata e sufficiente ai sensi dell’Articolo 36 della Costituzione, nonostante molti prevedano paghe orarie di gran lunga inferiori ai 9 Euro.

L’emendamento ha destato grande clamore, costringendo il Governo a fare marcia indietro. Ma se non ci fosse stata la necessaria attenzione e opposizione saremmo andati in vacanza con una norma salva-padroni, che avrebbe esentato i datori dal versare le differenze retributive e contributive, per i periodi precedenti l’atto interruttivo la prescrizione [3].

[1] Martina Amante, Lavoro, la proposta del Pd contro il part-time involontario per le donne, 16 luglio 2025, ilsole24ore.com.

[2] Redazione Economia, In pensione a 68 anni (e per i dipendenti pubblici a 70): ecco cosa succederà nei prossimi anni, 23 gennaio 2025, corriere.it

[3] L’atto interruttivo della prescrizione è un’azione legale che interrompe il decorso della prescrizione al fine di consentire al creditore di far valere il proprio diritto senza che questo scada.

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