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Riduzione dell’orario di lavoro: in che direzione si sta procedendo?

Il testo che segue prende le mosse dalle recenti audizioni fatte in Commissione Lavoro della Camera, relativamente all’esame delle proposte di legge C. 142 (AVS), C. 1000 (M5S) e C. 1505 (PD), recanti disposizioni per favorire la riduzione dell’orario di lavoro.

Da qualche anno a questa parte in Europa si sta diffondendo l’idea della riduzione dell’orario lavorativo. Probabilmente se ne possono rintracciare le origini all’interno dei nuovi modelli d’impresa flessibile nati dalla fine degli anni ’80, quando – allorché nei settori manageriali cominciavano a dissolversi i confini tra vita privata e lavoro (anche a causa della diffusione delle nuove tecnologie e dei personal computers) – diventavano più comuni le sperimentazioni sull’orario, principalmente orientate all’accorpamento di più ore in pochi giorni[1].

Soprattutto a partire dalla pandemia da Covid-19, però, l’oggetto della riduzione oraria è divenuto il lavoro dipendente e in particolare i lavoratori specializzati[2]. La spinta in tal senso è composita, perché proviene allo stesso tempo dalle grandi imprese, da una parte delle forze politiche, da alcuni centri di ricerca e dai sindacati concertativi[3]. Ciò ha permesso che le modalità tramite cui concretizzare tale nuova prospettiva si definissero abbastanza rapidamente: la riduzione oraria non deve comportare cali di produttività (bisogna lavorare quanto prima, ma in meno tempo) né, tendenzialmente, di salario.

Apparentemente si tratterebbe di un elemento di conciliazione fra imprenditori e dipendenti, in luogo dei tradizionali conflitti dovuti a interessi profondamente diversi, ma è davvero così? Del resto un’azienda che produce quanto prima ma in meno tempo è allo stesso tempo una realtà evoluta, che investe nella modernizzazione dei processi di lavoro e che esercita un adeguato grado di controllo sui dipendenti…

Interessi imprenditoriali dietro la riduzione oraria           

Secondo la lettura dominante, la riduzione dell’orario di lavoro porterebbe naturalmente il dipendente a sentirsi psicologicamente meglio, in virtù dell’acquisizione di maggior tempo libero, ragion per cui sarebbe in grado di sostenere ritmi più alti e fare lo stesso lavoro che faceva prima ma in meno tempo. A noi però risulta che l’aumento dei ritmi non si accompagni mai a uno sforzo volontaristico e discrezionale del lavoratore[4]. Questi, all’opposto, è indotto a “spingere sull’acceleratore” da sistemi di controllo informatici che impongono ritmi di lavoro preimpostati[5]. Ciò è vero sia che si tratti del settaggio preventivo della catena di montaggio, dell’imposizione di parametri temporali per lo svolgimento delle operazioni oppure dell’obbligo di esaurire il carico lavorativo entro la giornata (rischiando quindi di rimanere al lavoro oltre l’orario).

L’organizzazione del lavoro contemporanea, in Italia come negli altri paesi economicamente dominanti, è questa. Pertanto, anche qualora il lavoratore sentisse di poter e voler dare di più, difficilmente ne avrebbe la possibilità: non gode dell’autonomia necessaria per incrementare i ritmi di propria sponte. Per forza di cose, perciò, ipotizzare l’esistenza di un effetto psicologico indotto dalla riduzione dell’orario non cambia il fatto che l’aumento dei ritmi sarà quantificato in maniera arbitraria. Gli imprenditori decideranno quanto e come aumentare i ritmi cambiando parzialmente l’organizzazione del lavoro in azienda, spesso tramite l’inserimento di nuove tecnologie. Non vi sarà, dunque, alcuna controprova possibile.

La prima forma di interesse materiale dietro l’idea della riduzione dell’orario è, quindi, l’aumento della produttività oraria del lavoro e lo sviluppo complessivo di un’organizzazione aziendale atta a sostenerla, soprattutto nel senso dell’implementazione delle infrastrutture aziendali e dei meccanismi di controllo sulla forza-lavoro.

Un altro elemento, sempre attinente all’organizzazione del lavoro, è lo sviluppo di un sistema di turnazione differente. La riduzione dell’orario, specie se espressa nella forma dell’accorpamento di più ore in meno giorni (generalmente quattro: cd. “settimana corta”), dà al capitalista la possibilità di assumere nuovi lavoratori per le giornate rimaste scoperte (e, nel caso, per coprire i turni di notte). L’aumento dei ritmi dovuto allo sviluppo di un’organizzazione aziendale migliore rende l’operazione tendenzialmente meno onerosa e non per caso Landini si sente “pronto” «ad aumentare l’utilizzo degli impianti o l’apertura dei servizi anche su più giornate»[6]. Ciononostante l’idea di un’azienda in attività per 24 ore su 7 giorni non è per forza l’opzione più conveniente: i tassi di utilizzo della capacità produttiva sono in netto calo nella maggior parte delle potenze economiche, dai paesi cosiddetti “occidentali”, alla Cina e all’India[7].

Un sistema di turnazione che consenta di “spalmare” la forza-lavoro su orari e giorni che normalmente non sono lavorativi, però, conduce anche a un altro tipo di vantaggio per i capitalisti: la riduzione del costo del lavoro a causa della scomparsa delle maggiorazioni (festivi, notturni[8] e straordinari).

Nel 2022 abbiamo raccolto una interessante testimonianza di un lavoratore italo-macedone emigrato in Svizzera, dipendente della multinazionale Advaltech in una fabbrica di cialde per il caffè, che riportiamo integralmente. Il weekend di riposo è concesso ogni quattro giorni di lavoro, anziché cinque, e ogni quattro giorni si cambia turno. Si lavora per 8 ore nel turno della mattina, 8 in quello del pomeriggio e 7,15 durante la notte.

«non riusciamo ad avere un sonno regolare, perché appena ci abituiamo a un turno dobbiamo subito ricambiare abitudine. Le 48 ore previste fra un turno e l’altro non bastano affinché il corpo si abitui al cambio turno, perché cambiare ogni quattro giorni non fa bene. Quindi ci sono persone che vengono assonnate, con mal di gambe, mal di schiena, emicrania… Praticamente quasi tutti i dipendenti hanno questi disturbi, ma lo stress è tantissimo e coinvolge tutti senza eccezioni. (…) Ci hanno già detto, però, che un turno regolare dal lunedì al venerdì non ritornerà mai, perché l’azienda ci andrebbe a perdere.  [Fino a settembre 2021 si lavorava dal lunedì al venerdì, cambiando turno ogni settimana] (…) I turni sono difficili… È capitato anche un incidente sul posto di lavoro, un signore di 55 anni che è stato trasportato in ospedale e per due mesi non è venuto al lavoro. Soprattutto il turno da notte a mattina è il più difficoltoso

Di tutti, in quanto è difficile cambiare l’orario del sonno e ci sono infatti difficoltà fra tutti i dipendenti [9]. In questi mesi stiamo cercando di fare pressioni sull’azienda: abbiamo avuto 2-3 confronti coi nostri superiori, i quali hanno rifiutato di ritornare ai vecchi turni. Loro dicono che in Svizzera non ci sono più fabbriche che lavorano su questi vecchi turni [corsivo nostro]. Quindi loro stanno facendo di tutto per avere un guadagno, sia sul dipendente che sull’orario del dipendente. Noi stiamo facendo di tutto per farci cambiare i turni, però le sensazioni sono negative».

Da allora è passato quasi un anno e i lavoratori hanno ottenuto un sistema di turnazione a “doppio binario”: un gruppo fa dal lunedì al venerdì, con alternanza fra turni di mattina, pomeriggio e notte, mentre l’altro lavora per tre giorni a 12 ore, comprendenti sempre i fine settimana. Prima erano state previste maggiorazioni per il lavoro notturno e festivo mentre ora, nel caso dei turni di 12 ore, le maggiorazioni “festive” non si applicano più. Né prima né dopo si applicavano maggiorazioni per gli straordinari, che invece fino al 2021 venivano riconosciute. E siamo in Svizzera, non in Italia[10].

I lavoratori utilizzati per riempire i turni rimasti scoperti, poi, possono essere associati a forme di contratto precarie (come i part-time o i contratti a espansione), che rispetto agli indeterminati normalmente comportano costi inferiori per l’imprenditore che li attiva, generando un’ulteriore possibilità di risparmio sul costo del lavoro.

La diffusione di figure precarie e l’articolazione variabile dei turni possono, infine, migliorare la flessibilità aziendale, vale a dire la capacità di reagire prontamente alle fluttuazioni del mercato adattandosi alle esigenze dettate da domanda e offerta. Con ciò si riduce il rischio di trovarsi in difetto o in eccesso di produzione.

In conclusione, perciò, la riduzione dell’orario può avere come output l’aumento della capacità produttiva, la riduzione del costo del lavoro e l’incremento della flessibilità produttiva. A seconda del tipo di business e del livello di specializzazione della forza-lavoro può essere ricercata più l’una o l’altra cosa, anche se in generale la riduzione oraria risulterebbe più conveniente per le aziende grandi, quelle in grado di realizzare innovazioni di processo ed economie di scala[11]. Forse uno dei motivi, quest’ultimo, per cui la riduzione oraria viene foraggiata anche dal PD.

Una battaglia di consapevolezza

La ragione di quanto affermato, ovvero del non aver ancora illuminato gli aspetti positivi che una riduzione d’orario potrebbe e dovrebbe naturalmente comportare, risiede nel fatto che i rapporti di forza tra imprenditori e lavoratore, estremamente sfavorevoli per i secondi, non consentono al momento attuale di influenzare in alcun modo il modello di organizzazione aziendale del lavoro. A nostro parere, dunque, i rischi connessi a una politica di riduzione dell’orario derivano dal fatto che questa verrebbe gestita liberamente dagli imprenditori e dal Governo. Detto ciò non pensiamo che si possa dire a una coppia di lavoratori con due figli piccoli a carico che non devono accettare la riduzione oraria a parità di stipendio perché potrebbe trattarsi di un inganno… quando nell’immediato avrebbero il venerdì pomeriggio libero per poter stare con loro[12]. «Nelle condizioni presenti una battaglia per la consapevolezza e la cultura politica è l’unica scelta che abbiamo, nel tentativo di rendere i lavoratori vigili (anche in riferimento ai propri sindacati) e in grado di ingaggiare uno scontro sul piano della regolazione della riduzione oraria»[13], a tutela della stabilità contrattuale del lavoro e delle maggiorazioni salariali, dell’intensità dei ritmi, della regolarità d’orario e via dicendo[14].

Le tre proposte di legge

Le audizioni fatte alla Camera per esaminare le proposte di legge di Fratoianni, Conte e Schlein finalizzate alla riduzione dell’orario lavorativo parlano chiaro: tutte e tre fanno leva sull’aumento della produttività e l’estensione del tempo di attività dell’impianto. Per Conte la nuova articolazione dei turni che ne risulterebbe dev’essere in grado «di tener conto dei picchi di produzione delle imprese, degli investimenti in attività di formazione e sviluppo, della tecnologia utilizzata e di ogni altra variabile suscettibile di incidere sulla qualità e sulla produttività del lavoro»[15]; per Fratoianni «Se lavorassimo 36 ore alla settimana 3 milioni di disoccupati potrebbero avere un posto di lavoro», e «la riduzione degli orari a parità di salario e l’aumento dei posti di lavoro potrebbero portare a una concorrenza fra imprese maggiormente fondata sulla piena e buona occupazione, anziché sul contenimento dei costi produttivi»[16]; secondo Schlein bisogna prendere «atto di come i nuovi sistemi organizzativi e tecnologici consentano guadagni di produttività e riduzione della fatica del lavoro e la indubbia possibilità di rimodulare gli orari dei dipendenti, secondo modelli organizzativi condivisi e incentrati su un lavoro per obiettivi di crescita»[17].

Complessivamente la proposta del PD ci sembra la più seria da un punto di vista tecnico-gestionale[18] e, non per niente, è quella che promette il sistema di incentivi per le imprese più strutturato e l’unica che non millanta il ridimensionamento della disoccupazione o, addirittura, delle problematiche di genere. Conte e Fratoianni sembrano invece vittime di un certo massimalismo – o, più correttamente, demagogismo – di “sinistra”, perlomeno laddove ipotizzano che la riduzione oraria creerebbe nuova occupazione e, addirittura, che questa sarebbe principalmente femminile. Fratoianni si spinge persino a paventare un effetto positivo sui consumi per i dipendenti che lavorino su 4 giorni, in quanto questi ultimi sarebbero più propensi a spendere nei «settori della cultura e dell’intrattenimento»! Abbiamo spiegato che non è scontato che le imprese scelgano di riconvertire il tempo di inattività dell’azienda in nuovi posti di lavoro… ma sostenere che, in virtù del fatto che la nuova occupazione creatasi sarebbe principalmente precaria (in quanto non a tempo pieno), i nuovi posti andrebbero soprattutto a figure femminili, e poi vantarsene, è vergognoso di per sé ed equivale alla rinuncia preventiva a combattere per la loro stabilizzazione.

Chiarito che tutte e tre le proposte si muovano sul medesimo terreno ideologico è opportuno entrare nel dettaglio e mostrarne le differenze, perlomeno per rendere conto a chi legge di quella che è la variabilità degli orientamenti politici in campo.

La questione degli straordinari

Conte propone esplicitamente di «articolare, a fronte di una complessiva riduzione dell’orario, schemi orari in cui non siano considerate come lavoro straordinario le ore lavorative giornaliere prestate oltre l’ottava»[19].

Fratoianni, per quanto auspichi «la rimodulazione degli orari, che consente di intervenire per rendere più elastica l’organizzazione del lavoro», nel proprio documento vieta di sovrapporre l’articolazione irregolare dei turni (cd. “flessibilità dell’orario”) al regime degli straordinari[20]. Quest’ultimo è un aspetto positivo, ma bisogna anche notare che entro i limiti massimi di impiego, individuati nelle 40 ore settimanali e nelle 8 giornaliere[21], il datore di lavoro non è tenuto alla maggiorazione salariale nemmeno con questa proposta di legge.

Anche Schlein vede «l’istituto della riduzione dell’orario di lavoro come la possibilità di introdurre una nuova e diversa organizzazione dei tempi di lavoro»[22], rimodulando «gli orari dei dipendenti, secondo modelli organizzativi condivisi e incentrati su un lavoro per obiettivi di crescita»[23], ma non interviene sulla questione delle maggiorazioni salariali. Questo aspetto non è casuale.

La contrattazione della riduzione d’orario

Mentre Conte e Fratoianni, infatti, affidano rispettivamente alla contrattazione nazionale e alla legge il compito di regolare il percorso nazionale verso una più generalizzata riduzione oraria del lavoro, il PD opta per lasciare alla contrattazione decentrata (e quindi al mercato) l’onere di trovare le strade più adatte, stabilendo di conseguenza un sistema di incentivi e sgravi fiscali più corposo rispetto alle altre due proposte di legge, al fine di rendere le imprese più interessate (e di fare della propria proposta politica un elemento centrale nel dibattito d’opinione pubblica). Inutile dire che in realtà la deregolamentazione normativa favorisce da decenni, in Italia, la diffusione del lavoro sottopagato e con scarse tutele, ma come dicevamo l’istituto della riduzione oraria nasconde interessi imprenditoriali consistenti, di cui (almeno a sinistra) è il Partito Democratico, tradizionalmente, il miglior interprete.

Per il PD, quindi, è vincente il modello di contrattazione proposto dalla CISL, ma anche le minoranze di Conte e Fratoianni mostrano grossi limiti nel voler perpetrare l’attuale modello concertativo di contrattazione. Tutte e tre le proposte di legge, comunque sia, optano per una contrattazione dell’articolazione dei turni che preveda la partecipazione delle sole “organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative”, con ciò escludendo a priori quelle più conflittuali, che potrebbero non aver firmato accordi e Contratti Collettivi. Nota positiva – per quanto non sufficiente –, il fatto che la proposta di Conte apra alla possibilità di indire un referendum interno all’azienda per ratificare l’accordo sulla riduzione dell’orario.

Incentivi e sanzioni

La proposta di Avs concederebbe sgravi contributivi, principalmente nell’ordine del 10/15%, e sovvenzioni statali per coprire eventuali aumenti del totale dei salari pagati (cd. “monte retributivo”), in misura prossima al 50% delle spese aggiuntive.

Il Movimento 5 Stelle propone sgravi contributivi fino a 8.000€ annui per impresa, prevedendo uno stanziamento complessivo per lo Stato che non potrebbe superare i 250 milioni[24].

Il PD ha studiato un impianto simile, sempre basato sugli sgravi contributivi, che stavolta sarebbero da attuarsi prevalentemente nella misura del 30% del totale. Le risorse, previste nella misura di 100 milioni per il primo anno e poi 200, andrebbero prelevate da quelle previste per la formazione della forza-lavoro in azienda[25].

La conclusione politica è che tutte le forze politiche che si propongono di rappresentare il lavoro non riescono a prescindere dalla necessità di stimolare gli investimenti aziendali. Che si tratti di sviluppo dell’organizzazione aziendale del lavoro (come in questo caso), di ammodernamento produttivo o di formazione dei dipendenti, ogni sforzo viene regolarmente assecondato e finanziato dallo Stato. I margini di profitto sugli investimenti, del resto, in Italia non sono più così alti e il timore di vedere abbandonati importanti progetti di sviluppo imprenditoriale è la prima preoccupazione di chi si avventura a stilare leggi sul lavoro dipendente.

Un aspetto interessante della proposta di Avs

Leggendo uno studio tecnico sulla proposta di legge in questione ci siamo resi conto del fatto che quest’ultima introdurrebbe un elemento innovativo e positivo, nel panorama della legislazione del lavoro italiana: la regolazione dell’orario lavorativo non più sulla base della garanzia di un certo quantitativo di ore di riposo, bensì sulla base del numero di ore di lavoro effettuate. Secondo il D. Lgs. 66/2003, infatti, «il riposo giornaliero è quantificato in 11 ore consecutive, ogni 24 ore, con la conseguenza che, nella disciplina vigente, (…) l’orario massimo giornaliero è di 13 ore»[26].

Welfare aziendale o welfare state?

La proposta del PD è l’unica, a nostro parere, che abbia qualche chance di essere prima o poi applicata: è l’unica che concepisce il vantaggio della riduzione oraria per le imprese come un elemento variabile, che cioè andrebbe configurato in maniera diversa per ogni impresa. Non sorprenderà sapere che già oggi, nel campo dei rinnovi contrattuali (nazionali come aziendali), le sperimentazioni sulla riduzione d’orario aprono un ventaglio di opzioni differenti molto più ampio di quello complessivamente emerso nel dibattito di questo ultimo anno e mezzo e nelle tre proposte di legge esaminate.

Il CCNL dei bancari, ad esempio, opta per una riduzione oraria di una sola mezz’ora a settimana ma le ore di formazione retribuita aumentano di oltre il 50%, visto che il settore degli impiegati di banca è uno di quelli in cui le mansioni sono cambiate di più[27]. Può darsi che la scarna riduzione dell’orario nasconda un aumento della produttività maggiore, accumulato negli ultimi anni, che libera tempo che è più conveniente “convertire” in corsi di formazione anziché in libera uscita per i lavoratori o in lavoro extra.

Per gli alimentari il nuovo Contratto Nazionale prevede invece di ridurre l’orario estendendo il sistema dei Rol (“riduzione orario di lavoro”), un tipo di permesso che spesso le aziende trasformano in ferie aggiuntive usufruibili obbligatoriamente nei periodi che fanno comodo alle aziende, ossia quelli in cui c’è un calo della domanda e quindi può essere auspicabile un calo di produzione.

Dunque, a causa della riduzione oraria probabilmente si sta facendo strada un modello orario multi-periodale che fa lavorare tanto nei momenti di picco produttivo e meno in altri, al contempo risparmiando sullo straordinario e sulle assunzioni a tempo determinato.

Se la riduzione dell’orario diverrà un fatto diffuso bisognerà essere attenti al fatto che, presto o tardi, le imprese potrebbero cercare di barattare maglie via via più larghe sull’aumento dei ritmi di lavoro e il pagamento di festivi, straordinari e notturni, principalmente in cambio di welfare aziendale. In questi anni, però, il nostro modello di stato sociale tradizionalmente incentrato sul lavoro e le esigenze di chi lavora (pensioni, disoccupazione, cassa integrazione, sanità “gratuita” e universale) sta venendo progressivamente modificato dai Governi affinché aderisca sempre meglio al modello universalista anglosassone, basato su bonus ed emolumenti vari da corrispondere in base alle condizioni di vita (presenza nel nucleo famigliare di figli a carico, di persone anziane e fragilità di vario tipo, ecc.) e, soprattutto, su un livello complessivo di spesa tendenzialmente inferiore.

Il definanziamento del nostro vecchio welfare state lavorista fornirebbe allora alle imprese l’opportunità di agire in senso compensativo, magari tramite l’istituzione di asili nido aziendali[28] o la stipula di convenzioni con aziende sanitarie private, determinando un risparmio per il lavoratore molto più alto della spesa sostenuta dall’azienda[29] e, per di più, a fronte di un livello di protezione sociale che senza dubbio nel complesso sarebbe nettamente inferiore a quello cui siamo stati abituati nella seconda metà del XX secolo.

Pisa, 17 agosto 2024

E. Gentili (Ricercatore economico) e F. Giusti (Delegato CUB Pisa)


[1] In tal senso abbiamo rintracciato casi di responsabili aziendali che lavoravano 12 ore al giorno per tre o quattro giorni, mantenendosi liberi per il resto della settimana.

[2] Citiamo i casi di Luxottica, Sparda Bank, Lamborghini, Intesa San Paolo, Awin Italia, Tria Spa, ma ce ne sono molti altri. Peculiare è la sperimentazione fatta in Islanda nel pubblico impiego.

[3] Cfr. E. Gentili, Ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. Il significato delle aperture del Governo, «laCittàFutura», 31 Marzo 2023, https://www.lacittafutura.it/dibattito/ridurre-l%e2%80%99orario-di-lavoro-a-parit%c3%a0-di-salario-il-significato-delle-aperture-del-governo.

[4] Tranne che in certi casi di dipendenti di fascia alta, i quali, credendo nella “vision aziendale”, vengono indotti all’aumento dei ritmi principalmente da meccanismi di controllo psicologico.

[5] Se la gestione del lavoro informatizzata è il fattore determinante, non dimentichiamo che esistono altri meccanismi coercitivi, dal controllo psicologico in azienda ai meccanismi premiali, spesso ridicoli ma comunque manipolativi, fino alla classica sorveglianza del responsabile aziendale o di chi ne fa le veci (capo-reparto, preposto, team leader).

[6] Adnkronos, Lavoro, Landini: “Settimana 4 giorni obiettivo strategico sindacato”, 17/01/2023.

[7] Cfr. A. Pannone, Che cos’è la guerra? La logica dei conflitti capitalistici tra XX e XXI secolo. Bologna: DeriveApprodi, 2023, pp. 40-41.

[8] Si consideri che allo stato attuale i Contratti Nazionali presentano ancora una distinzione fra lavoro diurno e notturno, almeno formalmente.

[9] Anche in Italia il riposo previsto fra un turno e l’altro di lavoro (11 ore) (L. 66/2003, art. 6) e la giornata di riposo aggiuntiva che di norma spetta al lavoratore dopo la fine di un turno notturno possono coincidere, visto che la normativa europea lo permette esplicitamente (Dir. 93/104/CE, art. 5).

[10] Cfr. E. Gentili, op. cit..

[11] Per quanto riguarda il manifatturiero, Pancini, Segretario CGIL della Camera del Lavoro di Prato, propone di «avviare la sperimentazione nelle imprese più strutturate e meglio organizzate del manifatturiero». In “L. Pancini, Riduzione orario, https://www.cgilprato.it/riduzione-orario-pancini-cgil-avviare-la-sperimentazione-anche-a-prato/.

[12] L’ultimo rapporto del Censis dice che il 67% della forza-lavoro è favorevole alla riduzione oraria.

[13] E. Gentili e F. Giusti, Riduzione dell’orario lavorativo: rischi e obiettivi, «laCittàFutura», 13 Maggio 2023, https://www.lacittafutura.it/interni/riduzione-dell%e2%80%99orario-lavorativo-rischi-e-obiettivi.

[14] Del resto gli imprenditori sono soliti a concedere qualcosa in cambio di un aumento della produttività per poi riprenderselo surrettiziamente in seguito. In Fiat, ad esempio, una riduzione del 6% della velocità della catena di montaggio prevista per le necessità fisiologiche dei lavoratori è stata convertita nel 1993 in una pausa di 20 minuti da godere tutta in una volta. Peccato che alla fine tale pausa abbia sostituito una pausa preesistente (la “pausa disagio-vincolo”) e che perciò i lavoratori si siano ritrovati col cerino in mano.

[15] G. Conte, D. Carotenuto et alii, Proposta di Legge n. 1000 presentata alla Camera dei Deputati il 15 Marzo 2023, p. 3.

[16] N. Fratoianni, F. Mari et alii, Proposta di Legge n. 142 presentata alla Camera dei Deputati il 13 Ottobre 2022, p. 5.

[17] A. Scotto, E. Schlein et alii, Proposta di Legge n. 1505 presentata alla Camera dei Deputati il 20 Ottobre 2023, p. 2.

[18] È anche l’unica delle tre che limita l’ambito di applicazione al settore privato.

[19] A. Marchiotti, E. Zanella, A. Zaniboni, Oggetto, finalità e ambito di applicazione delle proposte di legge in materia di riduzione dell’orario di lavoro, Bollettino speciale ADAPT 10 Luglio 2024, n. 4, https://www.bollettinoadapt.it/oggetto-finalita-e-ambito-di-applicazione-delle-proposte-di-legge-in-materia-di-riduzione-dellorario-di-lavoro/. Si veda anche “G. Conte, D. Carotenuto et alii, op. cit., p. 5”.

[20] N. Fratoianni, F. Mari et alii, op. cit., p. 25.

[21] Ivi, pp. 14-15.

[22] A. Marchiotti, E. Zanella, A. Zaniboni, op. cit..

[23] A. Scotto, E. Schlein et alii, op. cit., p. 2.

[24 All’interno di questa proposta di legge è sicuramente buona l’idea di istituire un Osservatorio Nazionale sull’Orario di Lavoro. Questo «ha il compito di raccogliere e di elaborare dati statistici e socio-economici relativi a determinati aspetti dell’organizzazione del lavoro – quali le modalità di organizzazione del lavoro e dei relativi orari, l’attuazione delle disposizioni della presente PdL, le dinamiche del mercato del lavoro, l’impiego dei contratti di solidarietà e le specifiche intese raggiunte in sede di contrattazione collettiva di prossimità in riferimento alla disciplina dell’orario di lavoro (…) – e di predisporre una relazione annuale sulla propria attività». Camera dei Deputati, Servizio Studi, Disposizioni per favorire la riduzione dell’orario di lavoro A.C. 142, A.C. 1000, A.C. 1505, Dossier n. 272, 3 Aprile 2024.

[25] Cfr. D. L. 34/2020, art. 88.

[26] C. Nardo, A. Sannipoli, L’organizzazione del tempo di lavoro all’interno delle tre proposte di legge relative alla riduzione dell’orario di lavoro, Bollettino speciale ADAPT 10 Luglio 2024, n. 4, https://www.bollettinoadapt.it/lorganizzazione-del-tempo-di-lavoro-allinterno-delle-tre-proposte-di-legge-relative-alla-riduzione-dellorario-di-lavoro/.

[27] Negli ultimi anni le banche si sono aperte a tutt’un insieme di operazioni finanziarie nuove che prima non esistevano, da proporre anche a sportello e che infatti sono appannaggio dell’impiegato di base. L’inserimento di tecnologie informatiche è stato particolarmente corposo e, non per caso, rispetto alla situazione di fine anni ’90 questa fascia del lavoro dipendente è forse in assoluto quella che ha sperimentato gli aumenti dei ritmi più consistenti. La formazione, dunque, risulta quantomai necessaria e si configura anche come uno strumento di controllo sul dipendente ai fini di un corretto svolgimento della mansione lavorativa.

[28] Cfr. F. Giusti, Una inchiesta di Openpolis induce ad aprire una seria riflessione sul depotenziamento del welfare universale, «InTheNet», https://www.inthenet.eu/2024/08/02/i-centri-estivi-un-ricordo-del-passato/

[29] Ciò non toglie che un robusto welfare aziendale esiste in genere nelle grandi aziende, anziché nelle PMI. Esempi di aziende con asili nido aziendali sono, ad esempio, Fiat, Ferrari, Eni, UniCredit, Intesa Sanpaolo, Ferrero, Nestlè, Chicco (Artsana Group), Telecom, Wind e Vodafone.

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