Skip to content Skip to sidebar Skip to footer

Emergenza salario, la Cub in convegno al Senato

Giovedì 10 luglio 2025, Sala caduti di Nassirya presso il Senato della Repubblica. In diretta sul canale webtv.senato.it dalle ore 14.
Su iniziativa dei senatori Turco, Magni e Zambito.

Il programma dell’incontro, dove per la Cub interverranno Antonio Amoroso – coordinamento nazionale Cub – e Walter Montagnoli – Segreteria nazionale Cub.

Per seguire in diretta il dibattito: link alla web tv del Senato


EMERGENZA SALARIO
:
SITUAZIONE E PROPOSTE DI INTERVENTI

Il lavoro ha un rilievo primario nella Costituzione italiana.

Ciò è chiaro fin dall’art.1 ove si proclama che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”
Ma non solo. L’art.4 e l’art. 35 stabiliscono, rispettivamente, che la Repubblica riconosce “a tutti i cittadini il diritto al lavoro”, “tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori, promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro”.
Anche l’articolo 36 della Costituzione italiana interviene sul lavoro proclamando che “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

E’ proprio sull’attuazione della Costituzione italiana, a pochi mesi dal suo 79esimo compleanno e in particolare sul contenuto dell’art.36, che la Cub ha ritenuto di rilanciare, sostenere e partecipare al confronto con alcune forze politiche e con noti accademici, al fine di lanciare l’allarme su quella che è divenuta una vera e propria emergenza, valutare i dati esistenti e proporre alcuni ineludibili interventi.

D’altra parte, la conoscenza del mondo del lavoro e dei dati forniti da fonti istituzionali nazionali e internazionali, restituiscono una realtà molto diversa dalle previsioni della Costituzione italiana e da quanto auspicavano i padri costituzionali per la Repubblica e per il popolo italiano.

ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE DEL LAVORO (OIL): DATI INEQUIVOCABILI

Il rapporto dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), pubblicato nella nota denominata “Le tendenze dei salari e delle disuguaglianze salariali in Italia e nel mondo – Ufficio Internazionale del lavoro, 2025”, è chiaro e fornisce dati inequivocabili sulle tendenze salariali e sulle disuguaglianze in Italia.

I salari, anche in Italia, scendono nel 2022 e 2023 per salire nel 2024. Come nella maggior parte degli altri Paesi, l’aumento registrato nell’ultimo anno non è stato tuttavia sufficiente a compensare le perdite subite durante il periodo di alta inflazione.

Anche l’ISTAT conferma tale situazione, calcolando che la crescita delle retribuzioni contrattuali nei primi mesi del 2025 non basta a recuperare la perdita del potere di acquisto dei salari nel 2022-2023: le retribuzioni a marzo 2025 sono state inferiori dell’8% rispetto a quelle di gennaio 2021. Un po’ meglio nell’agricoltura e nell’industria ma peggio nei servizi privati e nel pubblico impiego.
Inoltre, a differenza della maggior parte dei Paesi del G20, l’Italia si distingue per una dinamica negativa nel lungo periodo, con salari inferiori a quelli del 2008.

ANDAMENTO DEI SALARI NEL LUNGO PERIODO

L’analisi delle tendenze salariali in un arco temporale di 17 anni evidenzia come l’Italia abbia subito le perdite maggiori in termini assoluti di potere d’acquisto dei salari a partire dal 2008.

IN ITALIA DAL 2008 AL 2024 I SALARI REALI HANNO PERSO L’8,7%

Le perdite di salario reale, dal 2008 al 2024, sono state dell’8,7% in Italia, del 4,5% in Spagna e del 2,5% nel Regno Unito (Grafico 1).
Invece, i salari reali sono cresciuti del 14% in Germania e del 5% in Francia.

I dati evidenziati rappresentano come la recente crisi del costo della vita abbia avuto un impatto negativo su tutti i Paesi a economia avanzata del G20, con un effetto particolarmente severo in Italia negli anni 2022 e 2023.
L’inflazione dopo aver raggiunto il picco dell’8,7% nel 2022 e ben oltre il 10% per le fasce della popolazione a più basso reddito, in Italia è diminuita nel 2023 e nel 2024.
Nel 2024, sostiene sempre l’OIL, i salari reali in Italia sono cresciuti in media del 2,3% mentre erano calati del 3,2% nel 2023 e 3,3% nel 2022, segnando una perdita maggiore che in altri Paesi ad economia avanzata del G20 (Grafico 2).

Tutto ciò, peraltro, è accaduto mentre la produttività del lavoro in Italia è cresciuta, anche più dei salari reali, invertendo la tendenza opposta verificatasi durante un lungo periodo, visto che negli ultimi 25 anni la produttività, nei Paesi ad alto reddito, è aumentata del 30% mentre in Italia è diminuita del 3%.

I LAVORATORI A BASSO REDDITO (DIPENDENTI E AUTONOMI) HANNO PAGATO IL PREZZO PIÙ ALTO DELL’AUMENTO DEL COSTO DELLA VITA

Gli adeguamenti salariali degli ultimi 2 anni non sono stati sufficienti a compensare l’aumento del costo della vita, soprattutto per i lavoratori a basso reddito che spendono una proporzione maggiore del proprio reddito in beni e servizi di prima necessità (alimenti e alloggi) e sono, pertanto, i più colpiti dalle crisi inflazionistiche.

Da un confronto dell’andamento dell’indice generale dei prezzi al consumo (IPC generale) con quello dei prezzi dei beni alimentari e degli alloggi, 2 voci che rappresentano oltre il 60% della spesa delle famiglie a basso reddito, in Italia si osserva un incremento maggiore dell’indice dei prezzi dei beni alimentari rispetto all’indice generale a partire da marzo 2022, raggiungendo una crescita del 13,6% a novembre dello stesso anno.
L’indice della spesa per alloggi è aumentato di gran lunga rispetto all’indice generale, anche a causa dell’impennata dei prezzi delle utenze domestiche (elettricità e gas). Dalla comparazione dell’evoluzione dell’indice dei prezzi al consumo dell’Italia con quelli di altri 3 Paesi dell’UE (Francia, Germania e Spagna), rispetto al 2022, si evidenzia un maggiore incremento dei prezzi per gli alloggi in Italia, mentre negli altri Paesi l’incremento dei prezzi alimentari ha prevalso rispetto all’incremento dell’indice generale e di quello degli alloggi, soprattutto nei primi 2 Paesi dei 3 suindicati.
Per verificare se l’incremento dei prezzi al consumo abbia inciso sul potere di acquisto dei lavoratori, è necessario analizzare l’evoluzione dei salari nello stesso periodo, soprattutto per coloro che sono a basso reddito che, come già detto, sono i più colpiti dall’impatto dell’inflazione sui beni di prima necessità. Tant’è che per tale ultima tipologia di lavoratori un adeguamento dei salari sulla base dell’IPC generale comporta, comunque, una perdita di potere di acquisto.

IN ITALIA LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NON HA GARANTITO L’ADEGUAMENTO DELLA RETRIBUZIONE ORARIA REALE

In Italia, ove, ancora, non esiste un salario minimo legale, i salari vengono fissati attraverso la contrattazione collettiva. I Contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) che scaturiscono dai negoziati e dagli accordi tra le organizzazioni datoriali e i sindacati, definiscono dei minimi di salario (c.d. minimi tabellari) per ciascun settore, professione e livello di inquadramento, coprendo la maggior parte dei lavoratori dipendenti e garantendo un livello minimo di retribuzione in base alla categoria lavorativa e all’anzianità di servizio.
Le retribuzioni contrattuali orarie nominali calcolate su una media dei CCNL sono aumentate del 15% negli ultimi 10 anni (Grafico 3).

In termini reali, le retribuzioni orarie hanno tuttavia subito una perdita di oltre 5 punti percentuali e prodotto un calo del potere di acquisto dei lavoratori. L’impatto della crisi del costo della vita è particolarmente evidente. Le retribuzioni orarie reali sono rimaste relativamente stabili per poi diminuire rapidamente a partire dalla metà del 2021. Questa decrescita è proseguita fino alla fine del 2022, dopo le retribuzioni orarie reali hanno ripreso a crescere, pur restando al di sotto dei livelli dell’inizio del 2015.
Sebbene i dati riprodotti nel Grafico 3 non corrispondano direttamente ai minimi tabellari, il calo significativo dei salari orari reali e la concentrazione dei lavoratori con bassi salari orari in famiglie a basso reddito, maggiormente esposte a un’inflazione superiore a quella registrata dall’indice dei prezzi al consumo (IPC generale), indicano come anche in Italia i lavoratori a basso reddito abbiano subito una perdita significativa in termini di salari reali dalla metà del 2021 e per tutto il 2022. 

RITARDI DEI RINNOVI CONTRATTUALI, MANCANZA DI DEMOCRAZIA NEI LUOGHI DI LAVORO E RINNOVI A “PERDERE

Una delle questioni che aggrava la situazione è data, anche, dal ritardo dei rinnovi dei contratti di lavoro collettivi con una media intorno ai 30 mesi (fonte Istat). Nel primo trimestre del 2025 erano 35 i contratti scaduti in attesa di rinnovo, per circa 6,2 mln di lavoratori dipendenti, ovvero il 47,3% del totale.
La debolezza contrattuale è anche dovuta alle scelte sindacali effettuate dalle OO.SS. mainstream: conseguenza anche di una legge sulla rappresentanza che, oltre a non favorire la democrazia nei luoghi di lavoro, privilegia la “selezione” operata dai datori di lavoro delle controparti sindacali, sulla base della disponibilità a sottoscrivere la costante perdita salariale e dei diritti registratasi negli ultimi 30 anni.

DONNE E MIGRANTI SUBISCONO IMPORTANTI DISUGUAGLIANZE SALARIALI

Quasi il 52% dei lavoratori italiani con bassi salari sono donne. In Italia, le lavoratrici rappresentano il 43,2% del totale dei lavoratori dipendenti. Questa proporzione sale al 51,9% tra i lavoratori dipendenti con salari bassi, ovvero coloro che guadagnano meno del 50% della mediana salariale oraria (attualmente intorno agli 11 Euro). Una stima del divario retributivo di genere in Italia, riferito al salario orario è pari al 9,3%, in leggera diminuzione rispetto al 2006 quando era del 10,2%. Se, però, si considerano le retribuzioni mensili, il divario retributivo di genere calcolato dall’ISTAT nel 2020 era del 16,7% mentre quello calcolato dall’INPS nel 2024 è stato del 20%. E’ del tutto evidente che il gap salariale di genere mensile è in parte determinato dal maggior ricorso al lavoro part-time tra le lavoratrici.
I divari retributivi di genere variano a seconda del settore e delle professioni: 16,3% nel settore alberghiero e della ristorazione, 20% nel settore manifatturiero, 23,7% nel commercio e del 32,1% nei settori finanziario, assicurativo e dei servizi alle imprese.

I lavoratori migranti in Italia percepiscono un salario inferiore del 26.3% rispetto a quello dei lavoratori nazionali.
Questo divario è superiore alla media dei Paesi europei ed è aumentato rispetto al tasso del 21,6% del 2006. Per le lavoratrici migranti, la differenza è ancora più importante in quanto il divario salariale generale si cumula con quello di genere che per quello orario si attesta al 10,3% e quello mensile arriva al 22%.

SALARI BASSI E DISUGUAGLIANZE: INACCETTABILI PIAGHE SOCIALI

La soluzione delle questioni salariali è fondamentale per la riduzione delle disuguaglianze e per la realizzazione della giustizia sociale. La riduzione delle disuguaglianze e della povertà lavorativa sono un traguardo fondamentale per la realizzazione della giustizia sociale.
Conoscere e affrontare le disuguaglianze di reddito nel mercato del lavoro, compresi i divari retributivi di genere e i divari retributivi subiti dai lavoratori in situazioni di vulnerabilità, è necessario per ridurre le disuguaglianze e la povertà lavorativa. D’altra parte, il reddito da lavoro è la principale, se non l’unica fonte di reddito per la maggior parte dei lavoratori e delle loro famiglie.
La crescita economica trainata dai salari e accompagnata da politiche redistributive, dalla definizione di un salario minimo e dalla contrattazione collettiva si traduce in una maggiore crescita generale. E’ noto che se i salari aumentassero, i lavoratori avrebbero più reddito disponibile e consumerebbero di più. Inoltre, la maggiore spesa per consumi spinge le aziende a produrre di più e ad assumere più lavoratori che a loro volta stimolano l’economia.

La disuguaglianza salariale esistente è inaccettabile e l’aumento delle disuguaglianze salariali tra le retribuzioni più basse è divenuto un sintomo di una situazione che va immediatamente superata, anche con un intervento da parte del legislatore, senza il quale l’intervento del sindacato non basta a imporre un ribaltamento della situazione. Si consideri che, ormai, a livello globale, il 10% dei lavoratori meno pagati riceve solo lo 0,5% della massa salariale totale, mentre il 10% dei lavoratori più pagati ottiene circa il 38% della stessa massa salariale.

POVERTÀ IN ITALIA: LA CARITAS LANCIA L’ALLARME

Il rapporto della Caritas del 2024 ha lanciato l’allarme sulla crescita in Italia della povertà e del lavoro povero, basando anche alcune considerazioni sulle rilevazioni Istat sulla “spesa per consumi delle famiglie”, riscontrando una percentuale significativa di persone che vivono condizioni di povertà assoluta e relativa in Italia.
Nel rapporto dell’associazione suddetta, nel 2024 il 3% in più del 2023 e ben il 62% in più rispetto a dieci anni fa si è rivolto alla Caritas con richiesta di aiuto: una situazione più che allarmante. L’intervento di aiuto della Caritas raggiunge molte famiglie e, nel complesso, circa il 12% di quelle in povertà assoluta (che nel complesso includono 5,7 milioni di individui). Tra le persone che si sono rivolte alla Caritas, prevale la fragilità occupazionale: il 47,9% è disoccupato, mentre il 23,9% ha un lavoro che non costituisce un fattore protettivo rispetto all’indigenza. D’altra parte, in Italia il parametro utilizzato per stabilire se le persone sono soggette a povertà o esclusione sociale è quello del reddito netto equivalente (somma complessiva dei redditi dei vari componenti del nucleo familiare al netto dell’Irpef, incrementato del 20% del valore del patrimonio, con esclusione della prima casa). Nel loro caso questo parametro è inferiore al 60% della mediana della distribuzione (la mediana del reddito netto equivalente è di circa 28 mila euro). Ebbene  risultano essere  in questa condizione 13 mln 391 mila persone, pari al 22,8% della popolazione, contro la media europea del 21,4%. Un parametro che viene considerato per valutare l’andamento del tenore di vita delle famiglie italiane è la loro spesa media. Ebbene, a fronte di un aumento della spesa media di circa l’8% in dieci anni, la flessione, considerata l’inflazione registratasi, è del 10% (Grafico 4): cala il potere di acquisto delle famiglie e per questo sale la quota di persone che, pur spendendo di più, non riesce a soddisfare le esigenze essenziali quotidiane.

Oggi in Italia vive in una condizione di povertà assoluta (Grafico 5), quindi senza il minimo per vivere in modo dignitoso, il 9,7% della popolazione, praticamente 1 persona su 10: 5 mln 694 persone, per 2 mln 217 mila famiglie (8,4% dei nuclei).

Attualmente in Italia il numero di famiglie povere delle regioni del Nord (998mila) supera quelle di Sud e Isole (859mila), mentre 10 anni fa lo scenario era molto diverso (Grafico 6).

LAVORO POVERO IN ITALIA: UN VERO PROBLEMA ANCHE PER LA CARITAS

Un elemento che conferma la situazione sociale allarmante che si attraversa in Italia, si coglie dai dati sul lavoro povero forniti da Istat: continua a crescere la povertà tra coloro che posseggono un impiego. Complessivamente, la povertà nel 2024 ha toccato l’8% degli occupati (nel 2022 era del 7,7%), anche se esistono differenze in base alla categoria di lavoratori: se si ha una posizione da dirigente, quadro o impiegato l’incidenza si attesta al 2,8% (nel 2022 era del 2,2%) mentre sale al 16,5% (nel 2022 era del 14,7%) se si svolge un lavoro operaio o assimilato (Grafico 7).
Quest’ultimo è un dato che spaventa e sollecita un intervento, segno emblematico di una debolezza del lavoro che smette di essere fattore di tutela e di protezione sociale.

Se si confronta l’incidenza della povertà di operai/assimilati e quella dei disoccupati lo scarto è solo del 4% (16,5% contro il 20,7% dei disoccupati).

I dati del mercato del lavoro in Italia manifestano una situazione assolutamente particolare: nel 2023 il tasso di occupazione è salito di 2,4% rispetto al periodo precedente alla pandemia, giungendo al 61,5% (la crescita in Italia è stata più marcata di Francia e Germania anche se il tasso complessivo dell’occupazione resta inferiore a quello di tali Paesi). Anche il tasso di disoccupazione cala, passando dal 9,9% del 2019 al 7,7% del 2023 e aumentano gli occupati con contratti a tempo indeterminato e diminuiscono quelli a tempo determinato e gli autonomi. Diverso invece l’andamento delle retribuzioni che in questi anni non hanno tenuto il passo dell’inflazione. Tra il 2013 ed il 2023 le retribuzioni lorde annue per dipendente sono aumentate di circa il 16%, un valore molto più basso della media UE27, salite del 30,8%. Se si guarda ai salari reali il divario rispetto alle altre grandi economie è ancora più ampio: anche la Caritas sottolinea che l’Italia risulta l’unico Paese in cui le retribuzioni reali sono in calo dal 2017 (Grafico 8).

La fragilità occupazionale è uno dei principali fattori di vulnerabilità, insieme a quella abitativa: le persone che si sono rivolte alla Caritas nel 2024 per il 49,1% sono disoccupati ma, in media, il 23,9% ha una occupazione. Tale ultimo dato fornisce il segno del cambiamento sociale avvenuto: nel 2016 coloro che si rivolgevano alla Caritas per il 62,5% (13,4% in più di oggi) era disoccupato e solo il 14,5% (9,4% in meno di oggi) era occupato.
Dunque, quasi una persona su 4 rientra nella categoria dei working poor, con punte che, rileva la Caritas, arrivano al 28,8% nel nord-ovest e 26,1 nel nord-est.

LAVORARE NON BASTA PER AFFRANCARSI DA UNA CONDIZIONE DI BISOGNO

Se si rilevano le professioni svolte dalle persone che richiedono un intervento di aiuto alla Caritas, tra gli uomini si riscontrano lavoratori dell’edilizia, della ristorazione, della vendita ambulante, traslocatori, giardinieri, corrieri, ecc. Le donne, invece, lavorano nel settore delle pulizie domestiche, della cura dei bambini e degli anziani. In genere, comunque, si tratta di carriere poco lineari, molto segmentate, articolate nelle mansioni svolte e nelle condizioni contrattuali, con bassa intensità lavorativa. In una parola, precari: lavoratori colpiti dalla dilagante “modernità” del lavoro, contro cui serve un urgente intervento legislativo in direzione opposta e contraria a quello percorso finora, in particolare negli ultimi anni.

REDDITO DI CITTADINANZA E UN SALARIO MINIMO: 2 QUESTIONI BASILARI

Il 2024 ha segnato anche un punto di svolta per quanto riguarda gli interventi di contrasto alla povertà in Italia: si è attuata la “riforma” del Reddito di cittadinanza (RdC) con il D.L. n.48 del 4.5.2023. L’Assegno di Inclusione (ADI) e il Supporto per la formazione e il lavoro (SFL) non hanno il carattere universalistico del RdC, destinato a tutti coloro che risultavano “poveri” sulla base di ben definiti criteri. ADI e SFL hanno un carattere categoriale, sicuramente meno equo dei criteri definiti dal RdC.
Da una parte, le destinatarie del SFL sono le persone non-occupabili (…tale criterio di scelta non ha precedenti nazionali e internazionali), cioè quelle che hanno nel proprio nucleo minori, persone con disabilità, anziani o soggetti svantaggiati, a cui è destinato il suddetto ‘Supporto per la formazione e il lavoro‘, con la previsione di un sostegno economico temporaneo e limitato al periodo a cui partecipano ai corsi di formazione. Al contrario, sono state ritenute occupabili le persone adulte senza carichi di cura e l’ADI, al più, è stato esteso alle persone in condizione di “svantaggio, ovvero con disturbi mentali, dipendenze, vittime di violenza, ex detenuti, senza dimora ma comunque inseriti in programmi di cura o assistenza certificati dalla pubblica amministrazione. Certo è che i dati censiti dagli enti accreditati danno la misura del cambiamento introdotto: se nel 2023 i percettori di RdC erano quasi 2 mln e 900 mila, a fine 2024 i percettori di ADI sono stati poco più di 1 mln e 800 mila.
Tale fotografia rappresenta il peggioramento che si è realizzato sul sostegno alla povertà: è necessario ripristinare una misura realmente universale, superando le scelte “categoriali” introdotte a inizio del 2024. Contemporaneamente è necessario varare la definizione di un salario minimo, non al di sotto di 12 Euro l’ora, senza demandare esclusivamente alla contrattazione la definizione dei minimi salariali: sono troppe le retribuzioni contrattuali, non solo quelle previste dalle intese “pirata”, per nulla “sufficienti” ad assicurare “un’esistenza libera e dignitosa” al lavoratore stesso e alla sua famiglia.

IL RECLAMO AL COMITATO EUROPEO DEI DIRITTI SOCIALI CONTRO L’ITALIA

La Cub, in tale contesto, ha dato mandato ai legali di presentare a fine 2023 un reclamo al “Comitato europeo dei diritti sociali” per violazione della Carta Sociale Europea (Parte I, punti 1, 2, 4, 12, 30 e della Parte II, art. 1, 4, 12 e 30) da parte dello Stato italiano in relazione alla violazione del diritto dei lavoratori a una retribuzione sufficiente (art. 4), del diritto alla sicurezza sociale (art. 12) del diritto alla protezione contro la povertà e l’emarginazione sociale (art. 30).

Il Governo italiano ha tentato di sbarrare la strada al reclamo, sollevando questioni di legittimità della Confederazione Unitaria di Base alla presentazione di tale reclamo ma, superate tali obiezioni, il Comitato citato ha dato al Governo italiano il termine del 31.7.2025 per replicare alle obiezioni formulate dai legali della CUB stessa ad una memoria dell’Esecutivo italiano. In attesa delle evoluzioni di tale iniziativa, la Cub ha intrapreso, una notevole quantità di iniziative sindacali, compresa l’indizione dello Sciopero Generale del 20 Giugno 2025.

LE PROPOSTE DELLA CUB: E’ URGENTE CAMBIARE PASSO E DIREZIONE

La situazione, complessivamente, non è semplice affatto ma la direzione intrapresa sta facendo deragliare e schiantare l’intera società. E’ importante e urgente valutare quali siano state le ragioni, le logiche e le prassi che hanno determinato la situazione in essere. E’ opportuno e necessario sapere e capire quali siano le responsabilità che hanno prodotto il dilagare del lavoro povero, non tanto per attribuire colpe a questa forza politica o a questo sindacato, quanto piuttosto per evitare che si continui in tale solco. La sbornia liberista per cui il mercato avrebbe dovuto autoregolamentarsi deve essere archiviata, come vanno superate le politiche dei redditi, fatte proprie dalle sigle sindacali “mainstream”, portandoli a sottoscrivere, accordo dopo accordo, anche di recente, inammissibili sacrifici per i lavoratori, in nome di un risanamento che non è mai stato raggiunto. Anzi.
Servono politiche redistributive: concertazione e consociativismo sindacale, politiche dei redditi, compressione dei salari, mancanza di investimenti, sono tutte ricette scadute, fallimentari e non riproponibili.
Non sarà un pranzo di gala e servirà attrezzarsi per una stagione di lotte sindacali e politiche, che non possono essere evitate. A tal proposito, da subito, diventa necessario contrastare il peggioramento in atto della L.146/90 e L.83/00: una norma varata per vanificare l’incisività delle mobilitazioni, in nome della garanzia di servizi pubblici che quotidianamente vengono scippati ai lavoratori e alle masse popolari. Si pensi, a tale proposito, all’aumento della spesa militare, che il Governo è disponibile a far decollare fino al 5% del Pil: saranno investimenti sottratti a servizi che già sono in grave sofferenza, come la Sanità, la Scuola, i Trasporti. E’ urgente scongiurare che si passi dal Welfare al Warfare.

  1. SALARIO MINIMO, AUTOMATISMO DI RIVALUTAZIONE DEI SALARI E DI UN VERO ADEGUAMENTO DELLE PENSIONI

    La definizione di un salario minimo in Italia, non inferiore ai 12 euro, è divenuta una priorità impellente. Esistono contratti che prevedono una retribuzione di circa 5 Euro l’ora: sono ridicoli importi che vanno messi al bando e fuori legge, costringendo le parti sociali che le hanno concordate a disdettare tali accordi. Speciose le argomentazioni di chi accampa scuse per evitare che siano approvati interventi legislativi che favoriscano l’adozione di immediate politiche redistributive dei profitti prodotti. Negare il fallimento delle politiche di concertazione, degenerate in cogestione e “santificata” con legge “Sbarra”, è un’ardita operazione di mistificazione della realtà che impone un intervento di sostegno per il raggiungimento di obiettivi altrimenti irraggiungibili al momento. Analogamente è inaccettabile e insostenibile che si continui a rinunciare ad adeguare le pensioni, impoverendo coloro che hanno il diritto a una quiescenza che non sia di stenti e di miseria.

  2. RIPRISTINO DEL REDDITO DI CITTADINANZA, QUALE MISURA UNIVERSALE DI SOSTEGNO ALLA POVERTÀ

    Il ripristino del Reddito di Cittadinanza in Italia o, comunque, di una misura realmente universale, di sostegno alla povertà, libera dal ricatto di un lavoro sottopagato, talvolta rischioso per la salute, spesso al nero o, come si dice “grigio”, per i lavoratori disoccupati.
    Il RdC è stata una delle poche iniziative di “classe” e di giustizia sociale degli ultimi anni: abrogarlo ha comportato una grande responsabilità, di chi ha deciso di togliere soldi ai poveri per garantirli alle aziende e alle fasce di reddito più alte con una riforma fiscale che ha favorito i più abbienti.

  3. INTERVENTI CONTRO L’ABUSO DELLA PRECARIETÀ

    La precarietà e il suo abuso sono divenuti in Italia una piaga endemica al mondo del lavoro in Italia, pubblico e privato. Si rende urgente e necessario un intervento legislativo che imponga una riduzione delle tipologie contrattuali e che ne impedisca l’utilizzo in maniera massiva, vietando la possibilità che tali limitazioni possano essere aggirate con gli accordi sindacali.

  4. GARANZIA DI UNA CONTRATTAZIONE SINDACALE DEMOCRATICA E PLURALE

    E’ ora che si approvi una legge sulla rappresentanza realmente democratica e trasparente. E’ dal 1995 che il legislatore si sottrae alla necessità di definire una norma che sottragga alle controparti datoriali la possibilità di scegliere le organizzazioni sindacali con cui trattare, riservando le convocazioni al rinnovo dei contratti nazionali, territoriali e aziendali ai sindacati considerati “affidabili”. La scelta della O.S. è e deve restare in mano ai lavoratori.

  5. INTERVENTI DI POLITICA ECONOMICA PER FAVORIRE INVESTIMENTI PUBBLICI IN SETTORI STRATEGICI DELL’ECONOMIA

    Serve un cambio di paradigma nelle politiche economiche italiane. La svendita dei gioielli di famiglia per fare cassa, divenuta con il tempo una cessione delle attività a prezzi di saldo delle esperienze e del know-how, va fermata e ripensata. Si sono cedute competenze anche in settori strategici, per calcoli da bottegai senza alcuna lungimiranza e visione industriale. Ripensare in un’ottica di rilancio è ancora possibile in importanti settori. Tale possibilità va colta prima che sia troppo tardi.

  6. LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E ALLEGGERIMENTO DELLA PRESSIONE FISCALE PER I LAVORATORI A PIÙ BASSO REDDITO

    L’evasione fiscale in Italia continua a essere un cancro, nonostante nel 2024 siano stati recuperati, secondo fonti del Governo, oltre 33 MLD di Euro. Esistono stime qualificate che denunciano una evasione monstre in Italia: oltre 1250 MLD di Euro dal 2000 al 2024. E’ evidente che si debba profondere il massimo sforzo possibile per recuperare quanto viene sottratto al fisco e alla collettività, prevedendo un alleggerimento della pressione fiscale, diversamente da quanto fatto anche dall’attuale Governo, per i lavoratori a più basso reddito. L’attacco a una progressività delle tassazioni, peraltro prevista in Costituzione, rappresenta in modo inequivocabile l’imbarbarimento raggiunto: una condizione che va superata, con un ribaltamento della prospettiva complessiva.

  7. SUPERAMENTO DELLE DISCRIMINAZIONI SIA DI GENERE, SIA QUELLE RISERVATE A GRUPPI DI LAVORATORI (DISUGUAGLIANZE ORIZZONTALI)

    Tanto ancora c’è da fare in Italia in merito alla necessità di superare e archiviare le discriminazioni di genere e di razza sul lavoro e nella società. I dati relativi alle discriminazioni salariali e occupazionali in Italia, appena esposte, restituiscono il segno di una situazione grave e calcificatasi in ogni ambito, imponendo un intervento legislativo non rinviabile, capace di fare da volano a un cambiamento di approccio e culturale che non può e non deve essere atteso ancora.

  8. INTERVENTI DI FORMAZIONE E SVILUPPO DELLE COMPETENZE PROFESSIONALI IN GRADO DI MIGLIORARE LA QUALITÀ DEI LAVORI POTENZIALMENTE ESEGUIBILI

    E’ insostenibile che le alte competenze debbano espatriare per trovare una collocazione adeguata nel mondo del lavoro in Italia, capace di offrire spazi e ambiti di collocazione solo alle professionalità più basse. Al contrario, un Paese manifatturiero come il nostro non può e non deve ridursi alla fornitura di basse professionalità al mondo del lavoro. Servono investimenti veri sulla formazione e sulla riqualificazione dei lavoratori. Lo sviluppo delle tecnologie in atto, l’ingresso dell’intelligenza artificiale nell’universo produttivo non deve essere vissuto come una minaccia ma come un’opportunità che va colta, preparandosi a farlo con anticipo.

E’ URGENTE CAMBIARE PASSO E DIREZIONE. ALTRIMENTI SI IPOTECA IL FUTURO DEI LAVORATORI E DELLE MASSE POPOLARI, DELL’INTERO PAESE E DELLE FUTURE GENERAZIONI. ORA E QUI SERVE UN SALTO DI QUALITÀ.

Roma 10.7.2025   CONFEDERAZIONE UNITARIA DI BASE

Viale Lombardia 20 – 20132 Milano –(02.7063104–02.76960856 Fax 02.70602409) – pec: cubnazionale@postacert.it

 

CUB © 2022. Tutti i diritti riservati.