Intervento della CUB di Pisa durante l’ Assemblea Nazionale “Fermare l’escalation. Nessuna Base per nessuna guerra” tenutasi il 4 giugno presso il Bastione Sangallo a Pisa.
In una recente intervista al quotidiano Il Riformista, il ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara rievoca il compromesso storico come momento aureo nel quale sono prevalse le ragioni dell’unità nazionale rispetto a logiche divisive e ideologiche, da qui l’invito al dialogo avanzato in termini cosi’ generici da destare profonde preoccupazioni.
Perchè la scuola da tempo è diventato l’ambito privilegiato nel quale costruire logiche imperiali\ste, culture di guerra a discapito della conoscenza di un dato periodo storico che scaturisce dal confronto e dalla lettura di alcuni testi banditi dai corsi.
E’ il caso della sterminata bibliografia sul colonialismo italiano che da sola aiuterebbe a comprendere le ragioni di quel ripudio della guerra sancito dalla Carta costituzionale che i costituenti avevano scritto avendo vissuto 20 anni di regime fascista che aveva messo al bando sindacati e partiti, perseguitato e ucciso gli oppositori sociali e politici per poi immergersi in guerre di aggressione senza lesinare uso di gas nei paesi africani.
Se gli intenti di Valditara fossero seguiti da fatti reali, la scuola tornerebbe al centro dei programmi del Governo, porremmo fine all’alternanza scuola lavoro invece di prevedere un fondo destinato alle studentesse e agli studenti vittime di gravi infortuni e incidenti mortali, attrezzeremmo gli istituti scolastici con laboratori moderni per acquisire conoscenze e le cosiddette competenze, apriremmo palestre anche nel pomeriggio senza cederne la gestione a un variegato associazionismo ormai diventato cinghia di trasmissione di interessi partitici.
L’idea del Governo è ben altra ossia la riproposizione di alcuni concetti militaristi come quello di Patria per affermare il quale militari e aziende belliche sono ormai presenti nell’istruzione di ogni ordine e grado, nel ruolo di mecenati che finanziano borse di studio e corsi di laurea ad hoc o a impartire lezioni sulle fascistissime battaglie novecentesche che di eroico ebbero ben poco.
La retorica militarista diventa cosi’ predominante come il sostegno bipartisan alla guerra, all’invio delle armi all’Ucraina e alla mistificazione del 2 giugno divenuta occasione per esibire nuovi sistemi di arma e la forza militare dell’esercito italiano che sotto l’egida della Nato o dell’Onu partecipa da oltre 30 anni a innumerevoli conflitti senza dimenticare le missioni pseudo umanitarie in Africa dove si estraggono materie prime indispensabili per la produzione industriale e la tenuta del sistema capitalistico.
Prevale da anni un punto di vista occidentale, intervenire militarmente ove siano messi in discussione interessi nevralgici secondo quella logica imperiale e imperialista che anima per altro il documento strategico della Ue: la Bussola europea.
La debolezza del movimento contro la guerra è anche frutto della debolezza dei lavoratori davanti ai conflitti armati, incapaci di portare avanti quel rifiuto della guerra consapevoli che a pagarne le conseguenze saranno i proletari dei paesi coinvolti.
La retorica bellicistica porta a una sorta di subalternità agli interessi nazionali che poi sono quelli delle classi sociali dominanti e delle priorità economiche dettate dal capitale economico e finanziario, lo stesso che nel corso degli anni ha precarizzato il lavoro alimentando l’insicurezza sociale nella impossibilità di acquisire un salario o un reddito dignitoso.
La debolezza del movimento contro la guerra è anche la debolezza del movimento operaio nelle sue variegate forme, la riduzione ai minimi termini del conflitto sociale ed economico schiacciato da retoricche patriottiche e dalla ricerca spasmodica di un’italianità costruita su ideologie forti e di grande preclusione rispetto ai migranti e alle classi sociali meno abbienti.
La logica della militarizzazione porta da tempo alla costruzione di nuove basi militari sui territori italiani ed europei, all’aumento esponenziale delle spese militari, a una sorta di prelievo forzoso a fini bellici di fondi destinati a uso sociale ed economico.
L’economia di guerra è quindi una realtà consolidata con la quale fare i conti e determina non solo la strisciante e quotidiana propaganda di unità nazionale ma cerca di compensare la militarizzazione dei territori con opere di cosiddetta rigenerazione urbana che al momento del voto diventano occasione per costruire consenso. E nella scuola prevale quella sorta di riduzione del danno che favorisce l’ingresso del comparto bellico nel ruolo di finanziatore delle borse di studio al posto dei finanziamenti pubblici dirottati verso altri capitoli di bilancio.
E in quest’ottica il militare diventa anche un ambito percorso occupazionale perchè lo Stato ha rinunciato a favorire la creazione di lavori socialmente utili oltre a destinare al mondo degli appalti condizioni lavorative caratterizzate da salari da fame.
La Cub invita le realtà sindacali e politiche e sociali a una riflessione a tutto campo, consapevoli che la lotta alla guerra e alla militarizzazione siano parti rilevanti di un progetto sistemico alternativo a quello oggi dominante, per questo invitiamo a non perdere di vista aspetti per noi salienti come quello del lavoro, di una società nella quale gli elementi repressivi e di controllo sociale diventano sempre più forti.
Un’idea diversa di società necessita di pratiche e prospettive comuni all’insegna del rifiuto di ideologie giustificazioniste della guerra e del recente passato coloniale, in questa ottica bisogna anche saper guardare ai processi di transizione energetica oggi preconizzati da settori del capitalismo internazionale.
Si tratta di mettere insieme una lettura critica delle contraddizioni capitalistiche dentro le quali il ricorso strutturale alla guerra diventa sempre più accentuato e non subire passivamente i processi di riorganizzazione dei territori a uso e consumo delle guerre e dei processi militari fino a organizzarci affinché l’istruzione non sia la palestra militare dove formare un’egemonia ideologica e culturale che trasforma le giovani generazioni in carne da macello per i conflitti.