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Iniziativa a Volterra per i referendum dell’8 e 9 giugno

Intervento Cub all’iniziativa di Volterra a sostegno dei referendum 

« L’8 e il 9 giugno vai alle urne e vota per abrogare le norme della precarieta’ »

Precarietà, erosione del potere d’acquisto e di contrattazione, crisi dell’economia, disinvestimento in sanità, ricerca e processi innovativi, siamo davanti a fatti incontrovertibili e documentabili attraverso rapporti innumerevoli (Fmi, Istat, Eurostat…).

In Italia è innegabile il declino produttivo con i crescenti divari territoriali, e di genere, gli abbandoni scolastici, le delocalizzazioni e la bassa produttività derivante dai mancati investimenti in formazione e tecnologia.

Ma al netto della propaganda governativa siamo oggi a raccogliere i cocci del Jobs act che in fondo sta bene anche al Governo Meloni come la stessa Legge Fornero, le conseguenze sono sotto i nostri occhi con il diffondersi del lavoro precario e  del part time, l’erosione del potere d’acquisto dei salari reali di oltre il 10 per cento in meno di 20 anni.

Chi parla di crescita dell’economia italiana probabilmente ignora i dati delle economie europee quanto a produzione, occupati e ammontare dei salari.

I 5 quesiti referendari da soli non bastano ma segnano comunque un’inversione di tendenza, poi il Parlamento potrebbe intervenire in maniera del tutto errata ma resterebbe il chiaro, e netto, pronunciamento della cittadinanza in caso di quorum e vittoria con l’abrogazione di norme che in questi anni hanno alimentato la precarietà, rafforzato i padroni e i datori ed eroso potere d’acquisto e di contrattazione.

In vista dei giorni 8 e 9 Giugno ricordiamo cosa dovremo abrogare:

  • le norme che hanno liberalizzato l’utilizzo del lavoro a termine e rafforzato il precariato.
  • le norme che impediscono il reintegro al lavoro in caso di licenziamenti senza giusta causa perchè qualche mensilità non compensa mai la perdita di uno stipendio fisso. E poi se la merce di scambio per un licenziamento resta qualche soldo, il potere datoriale, incluso il libero arbitrio, viene solo rafforzato.
  • le norme che facilitano i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese dove i diritti del lavoro sono ridotti all’osso e guarda caso le condizioni di vita peggiori e gli stipendi più bassi. Non si scambia un posto di lavoro con l’indennizzo di qualche mensilità.
  • le norme che impediscono, in caso di infortunio sul lavoro negli appalti, di considerare tanto l’appaltatore quanto il committente responsabile. Committente pubblico o privato scelgono l’appalto per ridurre il costo del lavoro e le responsabilità e, a fronte di 3 morti al giorno sul lavoro, è inaccettabile.
  • le norme che hanno aumentato gli anni necessari per avere la cittadinanza italiana ossia da 10 a 5 anni.
Dopo anni di erosione del potere d’acquisto e di contrattazione, di ricorso spasmodico alla precarietà, vogliamo provare a invertire la tendenza?
 
A tal proposito, il contributo di Cub Pisa sui temi del lavoro e il rischio di non raggiungere il quorum: 
Recentemente è stato lanciato un appello di intellettuali a favore dei quesiti referendari dal titolo “Vivere da cittadini, lavorare con dignità” … 
 

Ben vengano prese di posizione, dichiarazioni, inviti e appelli ma la situazione a oggi è veramente drammatica, nel Paese notiamo un sostanziale disinteresse per questi quesiti referendari, ci imbattiamo in comitati locali nei quali si trovano anche gli esponenti che vollero il jobs act o sostengono apertamente il Riarmo. Secondo noi questa confusione non aiuta a far comprendere la necessità del voto, la lotta all’astensionismo che alla fine favorisce solo i padroni e nei fatti permette a un ceto politico impresentabile di rifarsi una verginità.  Secondo noi comitati dove si trovano posizioni ambigue e contrastanti alla fine non giovano ai Referendum dell’8-9 giugno, poi l’appello da voi citato avrà senza dubbio presa in ambienti intellettuali che a oggi appaiono alquanto ristretti e sempre meno capaci di fare opinione.

A nostro avviso bisogna parlare con estrema semplicità dei temi del lavoro, della miseria crescente, dell’assenza dei diritti sociali spiegando cosa comporti il rispetto di questi diritti per il nostro potere di acquisto, per la qualità della nostra vita, per una pratica democratica che sia legata anche all’allargamento dei diritti esigibili.

L’errore di fondo sta proprio nel codificare dei messaggi destinati a ristrette elites e il ruolo degli intellettuali nel nostro Paese, dove si leggono meno libri e giornali di ogni altro in Europa, è ai minimi storici anche per la supponenza di questo ceto organico solo a sè stesso, alla sua sopravvivenza elitaria.

E’ dai tempi del crollo del muro di Berlino che gli intellettuali nel nostro Paese non svolgono un ruolo attivo, ci sono meritevoli eccezioni ma da lustri dovrebbero mettere in discussione la loro stessa funzione.

Il ruolo degli intellettuali in questo Paese andrebbe ripensato integralmente, forse dovremmo guardare agli albori del movimento operaio quando gli intellettuali erano letteralmente al servizio delle classi meno abbienti, non esitavano a sporcarsi le mani, a rischiare sulla propria pelle, a condurre istanze nei luoghi della cultura (pensiamo al silenzio attorno al mondo universitario).

Lo stesso appello è da tempo uno strumento obsoleto, in molti casi strumento per pulirsi la coscienza senza spostare di un centimetro i rapporti di forza.

Il referendum secondo voi è destinato all’insuccesso? Non ci sono toni troppo rassicuranti in giro?

I meno giovani forse temono di ripiombare (il quieto vivere fa comodo soprattutto agli intellettuali) nel clima della metà degli anni Ottanta quando venne sconfitto il referendum contro il taglio della scala mobile. Correva l’anno 1985, Cgil, Pci, Dp e Movimento sociale da soli contro tutti a tutela della scala mobile, sindacati come Cisl e Uil dalla parte dei padroni per ridurre prima, e cancellare poi, ogni automatico adeguamento dei salari al costo della vita. Cisl e Uil e una parte, minoritaria, della Cgil scelsero di sostenere le ragioni del Governo e di Confindustria, da allora le sconfitte del movimento operaio non si contano.

Come 40 anni fa oggi ci troviamo parte del sindacato schierato contro i referendum eppure non è all’ordine del giorno in Cgil la necessità di rompere l’inutile e dannosa unità con Cisl e Uil.

Nel 1985 vinse la reazione, le percentuali dei votanti allora furono elevate e per i nostri giorni impensabili (circa il 78% degli aventi diritto), 55 per cento contro il 45%, un Paese spaccato a metà ma con la sconfitta in quelle urne iniziò la parabola discendente del sindacato subalterno e della forza lavoro.

I referendum sono forse l’ultima fermata prima della discesa agli inferi, da soli non sono sufficienti senza essere accompagnati da una coerente iniziativa nei luoghi di lavoro e nella società, eppure, pur con tante contraddizioni provano a inceppare una macchina che da tempo va avanti imperterrita distruggendo diritti sociali, tutele reali, potenziando il ruolo della finanza e dell’impresa. E solo per questo motivo val la pena di sostenerli.

Tale ruolo è divenuto egemone non solo per i processi di ristrutturazione capitalistica (consigliatissima, a tal riguardo, la lettura del libro di Volpi) ma perché da decenni il punto di vista sul lavoro è quello padronale e i sindacati restano in buona parte subalterni. Il richiamo alla Costituzione ci sembra ancora una volta inutile se pensiamo che la stessa sinistra ha finito con il distruggere la Carta a partire dalla riscrittura del titolo V e dal ridimensionamento dello Statuto dei lavoratori attraverso il jobs act.

Agli occhi della smemorata classe lavoratrice l’immagine della sinistra come artefice degli attacchi ai diritti collettivi è assai più forte di quella di una destra ostile alle istanze della forza lavoro, gli intellettuali non hanno mai voluto fare i conti con il renzismo e la sua storia ma anche con i decenni di arrendevolezza dei sindacati rispetto alle istanze padronali.

Veniamo da 50 anni di arretramento continuo dei sindacati e del conflitto

La nostra Repubblica, dalla svolta dell’Eur a metà degli anni settanta in avanti, non è fondata sul lavoro ma sulla proprietà e sulla finanza,  in troppi lo hanno ignorato o compreso con grave ritardo e per tornare al ruolo degli intellettuali sono proprio questi ultimi ad avere sonnecchiato e sottovalutato il problema. 

L’astensionismo, per far fallire i referendum, non è stato un’arma solo della destra, presentare la sinistra come l’anima pulita e cosciente della cittadinanza non sarà di aiuto per raggiungere il quorum, per puntare sul senso di responsabilità civico dovremmo avere fatto prima qualcosa di utile a costruire una democrazia reale, mobilitazioni efficaci e presenze non sporadiche, preservando la sanità e l’istruzione pubblica, difendendo i diritti sociali anche sotto l’egida dei governi di centro sinistra. I richiami degli intellettuali, in questo Paese sempre più dominato dall’analfabetismo di ritorno, finiscono con il giocare a favore del nemico di classe, allontanano e non avvicinano settori popolari utilizzando termini e concetti da tempo fuori dal vocabolario quotidiano. E  basta pensare all’odio atavico delle masse popolari verso gli intellettuali alimentato dal sovranismo e razzismo delle destre, banalizzare il problema in questi termini significa non volere leggere i processi di cambiamento della nostra società. Se oggi interi settori popolari guardano a destra la responsabilità è anche e soprattutto di una sinistra impresentabile, incoerente, filo atlantica e per l’austerità.

Chiudiamo sui referendum

I referendum vanno sostenuti con decisione ma bisogna spiegare in termini semplici la ragione per la quale andare alle urne e votarli. Noi partiremmo dalla salute e dalla sicurezza sul lavoro, dalla responsabilità dei committenti negli appalti e nei subappalti per parlare alla fine della cittadinanza per gli stranieri residenti in Italia. Se non rafforziamo i diritti sociali per gli autoctoni difficilmente li renderemo consapevoli e coscienti della necessità di inclusione dei migranti, se i lavoratori italiani non riprendono a confliggere insieme ai colleghi stranieri difficilmente si conosceranno, gli uni con gli altri, fraternizzando tra di loro e superando le differenze costruite ad arte per dividere la forza lavoro. I diritti sociali e di cittadinanza si tutelano e si ampliano non solo a chiacchiere ma dentro una visione e una pratica sociale ben determinata che poi avviene all’insegna di quel conflitto che fa paura tanto agli intellettuali quanto ad ampi settori della sinistra politica e sindacale perché impone a noi tutti\e un cambio radicale di paradigma.

La mancata sicurezza sul lavoro arriva da tempi lontani, avremmo dovuto bloccare il Paese davanti all’aumento degli infortuni e delle malattie professionali, al contrario i sindacati si sono limitati a qualche sciopericchio locale e la logica degli appalti e dei subappalti ha fatto il gioco della rappresentanza facendo passare dei contratti nazionali costruiti ad arte per ridurre il costo del lavoro e abbattere tutele e diritti.

Se vogliamo provare a vincere questi referendum non potremo ignorare l’operato dei sindacati negli ultimi 30 anni, se continui a presentarti in giro con sigle che osteggiano il referendum, come votarono contro la scala mobile nel lontano 1985, raccoglierai solo sconfitte.

I quesiti referendari da soli non saranno sufficienti se non accompagnati da una profonda revisione dell’operato sindacale e politico, urge trasmettere un reale cambiamento, dopo anni di jobs act bisogna invertire la tendenza, ad esempio, ostacolando non solo i licenziamenti e l’abuso dei contratti a tempo determinato ma anche l’utilizzo da parte delle imprese degli sgravi e degli ammortizzatori sociali.

Se non si contrasta l’operato della Meloni, se accettiamo invece la bontà della contrattazione di secondo livello a discapito della difesa del salario di base, e del potere d’acquisto e di contrattazione, i referendum saranno già persi in partenza.

I referendum sui licenziamenti e sui contratti a termine, se approvati, avrebbero importanti ed efficaci novità per la forza lavoro delle piccole imprese (che poi sono la gran parte di quelle italiane), bisogna puntare alla reintegra e non all’indennizzo che poi ha solo rafforzato le prerogative datoriali rispetto a quelle dei salariati.

Per concludere si tratta solo di porre fine a una lunga stagione regressiva che parte dal Pacchetto Treu e dalla Legge Maroni per approdare al Job Act, per farlo non basta il richiamo a una Carta ormai svilita e privata dei suoi significati pregnanti. Serve invece andare al sodo delle questioni e rimettere al centro gli interessi dei salariati contro quelli padronali senza timore di agitare il conflitto di classe. Certe ataviche paure avevano già paralizzato i sindacati nella Prima guerra mondiale in occasione della celebrazione del 1° Maggio, la storia insegna che quei sindacati furono del tutto incapaci di reggere l’urto dei fascismi e dei nazionalismi. E la storia, in teoria, non dovrebbe essere maestra di vita?

 

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