Imperversa sui media la polemica sul rialzo dei tassi. Dal giugno 2022 la BCE ha portato i tassi al 4% (partendo da zero) e si prevede a fine luglio un nuovo rialzo dello 0,25%. La manovra, condivisa con le banche centrali di area dollaro e sterlina, viene giustificata come misura finalizzata a contenere l’inflazione.
L’impennata dei prezzi dipende da una serie di fattori, tra cui la rapida ripresa post pandemia, la strozzatura nella catena produttiva e logistica di componenti e semilavorati essenziali, l’impatto della guerra in Ucraina sui prezzi di materie prime, cereali e forniture alimentari.
In realtà almeno due terzi dell’inflazione che siamo costretti a subire dipende dai profitti, quindi dalle politiche di prezzo praticate dalle imprese che ricostruiscono i loro margini, applicando ricarichi stratosferici e approfittando della situazione per aumentare gli utili.
L’inflazione non è dunque arginabile con la politica dei tassi, come dimostra la sua persistenza, anche dopo un anno e più dal varo della stretta monetaria. Serve però a modificare il rapporto distributivo tra capitale e lavoro, approfondendo la forbice tra i guadagni delle imprese (che salgono) e la retribuzione dei lavoratori (che resta ferma in termini nominali e scende in termini reali). Il gioco è stato reso ancora più facile dal sistematico smantellamento, avvenuto ormai 30 anni fa, di un efficace sistema di indicizzazione di stipendi e pensioni, che era imperniato sulla scala mobile.
Il potere d’acquisto è calato in modo ulteriore e accelerato, a partire dagli ultimi mesi del 2021, a fronte di un’inflazione annua al 12% (media del 2022) e al 6% (in questo primo semestre 2023). Il “carrello della spesa” è salito persino di più, sia per il rincaro dei beni energetici (che si sta fermando), sia per il rialzo dei beni alimentari (che sta proseguendo senza segnali di rallentamento).
Tra le componenti che hanno pesato di più nella spesa media delle famiglie c’è il rincaro delle rate di mutuo. In particolare, a dare le maggiori preoccupazioni sono stati, com’è ovvio, i mutui a tasso variabile, i cui titolari hanno subito rialzi di rata fino al 75%.
Sullo stock dei mutui in essere in Italia (425 miliardi di euro), quelli a tasso variabile incidono per circa un terzo. La questione è arrivata ormai anche sui tavoli istituzionali, con pressioni sull’ABI perché prenda dei provvedimenti di tutela dei mutuatari più in difficoltà.
Dopo forti resistenze, l’associazione di categoria delle banche sta pensando a generalizzare quello che alcune banche singole hanno già cominciato ad anticipare: un allungamento della scadenza del mutuo, che consente di mantenere stabile la rata, ma costringe all’indebitamento quasi perpetuo.
È una misura tampone, che evita alla banca di riclassificare il mutuo tra i crediti a sofferenza, previene un’impennata delle rate insolute e quindi un’esplosione delle esecuzioni giudiziarie e del volume degli immobili invenduti. Per la banca è un riscadenziamento degli utili su orizzonti temporali più estesi: quasi un affare! Per il mutuatario resta la scelta tra rinegoziare a condizioni svantaggiose (passando dal variabile al fisso) oppure impegolarsi in un debito con fine pena molto più in là…
Gli utili bancari sono stati decisamente soddisfacenti, da che i tassi hanno ricominciato a salire: 25 miliardi di euro per le banche italiane nel 2022, altri 5 miliardi messi nel salvadanaio nel primo trimestre 2023.
Un bilancio record, che fa rinverdire i fasti del 2007, quando gli utili del sistema ammontarono a 18 miliardi di euro. Quello fu l’ultimo anno di festa, prima del crack Lehman Brothers e c’è da sperare che questa volta vada diversamente, per non dover ripercorrere corsi e ricorsi di cui faremmo volentieri a meno.
I lavoratori della categoria stanno provando, con il rinnovo contrattuale, a recuperare almeno una parte degli utili straordinari realizzati dalle banche negli ultimi anni: sarebbe ora di adeguare gli stipendi, tenendo conto della redditività aziendale, della produttività connessa ai nuovi processi organizzativi e tecnologici, del nuovo contesto inflazionistico (che rischia di durare a lungo). C’è poi il tema della tassazione dei fringe benefits, tra cui rientrano finanziamenti e mutui a tasso agevolato: una questione non ancora risolta.
Redistribuire il valore aggiunto è giusto e doveroso. Tuttavia, non sarebbe corretto far pesare sulle famiglie italiane ed in particolare su quelle indebitate il maggior onere del costo del denaro. Sotto questo aspetto, la condotta delle banche italiane è fortemente discutibile.
La stretta BCE si accompagna in Italia ad una forte restrizione del credito (-2,3% su base annua), proprio mentre altrove (anche nell’Unione Europea) accade l’opposto. Il Germania il credito alle imprese è salito del 7,7% e in Francia del 6,2%. Questo non potrà che rafforzare i segnali di rallentamento economico, soprattutto nel settore manifatturiero, tenendo conto che ormai anche la Germania (che rappresenta una componente importante del nostro interscambio commerciale) è entrata in recessione tecnica.
Le banche italiane non brillano per liquidità, perché hanno un rapporto piuttosto basso tra riserve e finanziamenti TLTRO da restituire alla BCE, ma sono molto restie a remunerare i depositi. A livello di sistema europeo solo il 12% del rialzo dei tassi è stato trasferito sulla remunerazione dei depositi, mentre ben il 61% è stato trasferito sul costo dei prestiti.
Leste ad alzare i propri margini di interesse, ma lente ed avare nel pagare i depositanti…
Per le banche italiane il margine d’interesse è così salito al 3,29% mentre la media europea è 35 punti base più in basso (2,94%).
Ci sono parecchi motivi per pretendere un miglior trattamento, sia dei lavoratori, che della clientela….
C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni