Iniziano oggi, venerdì 10 marzo, i lavori congressuali a cui sono chiamati i delegati delle federazioni provinciali riuniti a Chianciano per la V Assemblea nazionale della Confederazione Unitaria di Base. Il contesto internazionale e la guerra in corso in Ucraina indubbiamente influiranno sul confronto che avrà luogo, da cui la Cub dovrà e potrà trarre le linee programmatiche di intervento per il prossimo futuro. In una situazione economica di crisi generalizzata a livello sia nazionale che internazionale, sarà prioritario procedere a una definizione comune e condivisa dei contenuti e delle modalità di intervento rispetto ai nodi principali che riguardano i lavoratori e le condizioni all’interno dei luoghi di lavoro caratterizzati, come la società tutta, da una complessità crescente
Aumento esponenziale della popolazione mondiale, emergenza climatica, economica e politica che condizionano le scelte degli Stati in ordine alla loro sostenibilità pena il rischio concreto di un’autodistruzione del pianeta, queste le caratteristiche dello scenario da cui non si può prescindere approcciandosi alle problematiche del mondo del lavoro. Negli ultimi tre anni prima la pandemia e poi lo scoppio della guerra hanno ulteriormente accelerato le difficoltà economiche e sociali, le disparità tra lavoratori salariati, pensionati e famiglie da un lato e coloro che invece, muovendo già da posizioni di privilegio, hanno se possibile ulteriormente aumentato la distanza dai primi in una tendenza all’accumulazione e all’accentramento di ricchezze e potere invertendo la rotta rispetto alle conquiste dell’ultimo secolo. Il dominio del capitale finanziario informa l’economia e la politica e sopravanza quello della produzione, portando a un sistema sempre più concorrenziale e di sfruttamento del forte sul debole, con una crescente e considerevole perdita di diritti e potere contrattuale.
Guerra in Ucraina
Anche tra i vari Stati prevale lo spirito concorrenziale e di sopraffazione, per accaparrarsi le risorse necessarie a mantenere lo status raggiunto senza badare alla tutela dell’ecosistema globale e il rispetto dei diritti umani. Ultimo in ordine di tempo in questo senso è il conflitto scoppiato in Ucraina, con l’invasione compiuta dalla Federazione Russa dopo anni di allargamento dell’influenza della Nato in un’ottica di progressivo accerchiamento che ha condotto a uno scontro frontale tra imperialismi.
Oltre al rischio di escalation militare fino all’impiego di armi nucleari, la guerra nell’est Europa segna uno spartiacque facendo emerge la frattura della globalizzazione e la chiusura di una fase, che andrà accuratamente indagata. Non è la prima volta che il movimento operaio e sindacale si trova a fronteggiare temi di così grave portata: dopo la seconda guerra mondiale sono state decine i conflitti che hanno causato milioni di morti, spesso dimenticati o sottaciuti, per non turbare l’opinione pubblica conformista e non alterare il modello del “produrre per consumare”. Questa volta però è diverso: la guerra scatenata da una potenza imperiale in declino (la Russia) contro un suo vicino recalcitrante (l’Ucraina) è in realtà un conflitto per procura tra gli Usa e il suo più temibile nemico militare. La posta in gioco è molto alta: è una guerra “calda” che tende a definire una nuova ripartizione del mondo, dopo il fallito esperimento unipolare. Si rinnova inoltre l’investimento nel settore militare-industriale – 2.000 miliardi di dollari l’anno la spesa militare oggi – altamente concentrata nei paesi della Nato. La guerra serve poi a schiacciare la classe degli sfruttati, che sperimentano come non mai l’impotenza e la passività della classe operaia rispetto alle circostanze imposte dall’esistente. L’arruolamento forzato sotto le bandiere del nazionalismo e dell’imperialismo mette a dura prova la capacità di mantenere un punto di vista indipendente ed autonomo. Ancora più arduo è costruire e rendere efficace la resistenza alla guerra e alle sue dinamiche degenerative: arduo ma non impossibile, nonostante l’arruolamento anche e soprattutto mediatico – dobbiamo accettare i sacrifici per aiutare l’Ucraina, perché siamo in guerra e tocca a noi pagarne le spese.
Fallimento del modello unipolare e sfida strategica con la Cina
La sconfitta del movimento operaio in occidente, e l’implosione del socialismo reale a oriente, avevano eliminato lo spettro di modelli politici alternativi: si poteva attaccare il welfare statale e sgretolare le conquiste sociali del ciclo precedente. Sul piano geopolitico sembrava profilarsi un nuovo secolo americano mentre la Russia, in preda al caos degli anni ’90, non sembrava costituire un problema, subendo passivamente l’adesione alla Nato degli ex-satelliti, in contrasto con gli accordi presi ma il ridimensionamento della seconda potenza nucleare mondiale in realtà è una questione ancora aperta.
Nel contempo il gigante asiatico cinese, dal suo ingresso nella WTO nel 2000, ha conosciuto due decenni di crescita impetuosa, fino a sfidare l’egemonia statunitense in campo economico (e non solo). Il superamento della Cina sugli Usa, rispetto al PIL, è già avvenuto (se calcolato in parità di potere d’acquisto) e ormai anche sul piano tecnologico l’avvicinamento procede a grandi balzi.
Il mondo non ha più un baricentro americano e più della metà della popolazione mondiale vive in Asia, continente con una dinamica economico/demografica in rapida crescita (mentre l’Europa è “vecchia” e in costante contrazione). Da qui il tentativo statunitense di ritardare il più possibile gli effetti di questa contrazione economica e quindi politica a livello globale. Il confronto strategico sarà nell’Indo-Pacifico per “contenere” la Cina, mantenere il dominio sui mari e difendere il controllo degli stretti mentre tra paesi asiatici, africani e latino americani si stringono accordi commerciali e politici, a partire dai BRICS. La guerra serve agli USA per chiedere, soprattutto agli alleati, uno schieramento deciso, senza preoccuparsi a sufficienza del fatto che alla fine nessuno potrà realmente vincere e nessuno veramente perdere.
Globalizzazione uguale sfruttamento
La globalizzazione è stata usata dal capitale per estendere su scala planetaria le forme mercantili dello scambio, raggiungendo con la mercificazione ogni area precedentemente esclusa. Nello stesso tempo la forza lavoro è stata uniformata a standard omogenei: il capitale globale ha messo in competizione costi e prestazioni, abbassando i primi e alzando le seconde. A milioni di nuovi ricchi, russi, cinesi, indiani, asiatici in genere fanno da contraltare le diseguaglianze cresciute a dismisura. Dopo aver funzionato per il primo quarto di secolo, la globalizzazione ha provocato la delocalizzazione delle attività portando allo smantellamento degli apparati produttivi in larga parte di Europa e Stati Uniti. Desertificazione produttiva e fuga dei capitali hanno scardinato le basi fiscali del prelievo per finanziare il welfare e trasferito all’estero processi e competenze produttive. La fine della globalizzazione, nella sua prima versione, sembra quindi inevitabile; resta da capire quale sarà l’epilogo di questa situazione.
Conseguenze del conflitto russo-ucraino
Nel frattempo, organizzando una guerra a 7.000 chilometri dai propri confini, gli Usa hanno scaricato sui propri alleati europei il peso di 6 milioni di profughi e mentre tutti i Paesi europei si impegnavano a far salire al 2% del PIL la spesa per armamenti, gli Usa hanno espulso la Russia dal sistema SWIFT, hanno fatto saltare i gasdotti North Stream 1 e 2, imponendo la rinuncia al gas e al petrolio russo, per sostituirli con il GPL americano (quattro volte più caro) e il petrolio da scisti: il ritorno sotto il completo controllo a stelle e strisce è ormai realtà. Intanto il sistema di sfruttamento economico e delle risorse planetarie da parte delle elites globali non si arresta: per autoperpetrarsi il capitale ha cominciato da tempo a regolare i rapporti con il lavoro ribelle, attraverso l’indebolimento delle organizzazioni operaie e sindacali, attraverso la delocalizzazione, il decentramento, l’estensione del suo modello su scala planetaria. Ha usato l’inflazione, il rialzo dei tassi, le strette monetarie, la ristrutturazione tecnologica, le crisi finanziarie ma soprattutto l’attacco al salario e alle rigidità del lavoro, conquistate con la contrattazione.La precarietà dei contratti di lavoro imposta negli ultimi 30 anni ha reso ricattabile un’ampia porzione della forza lavoro, che agisce da esercito industriale di riserva. L’abbassamento dei salari e l’eliminazione dei sistemi di indicizzazione (come la scala mobile) rivelano la propria efficacia al massimo grado proprio in circostanze come quelle attuali, in cui assistiamo a un costante rialzo dei prezzi che viene scaricato completamente sul potere d’acquisto di lavoratori dipendenti e pensionati, una dinamica che la guerra esaspera, accelera e infine giustifica.
Come reagire all’esistente
La Cub e i sindacati di base stanno facendo la loro parte: è giusto chiedere aumenti salariali adeguati a difendere il potere d’acquisto; il ripristino dell’indicizzazione di salari e pensioni; il blocco dei prezzi sui beni primari; un tetto ai profitti, soprattutto speculativi e finanziari; il blocco della spesa militare, per destinare più risorse ai servizi sociali; investimenti su ricerca e sviluppo per una vera transizione energetica, verso fonti naturali rinnovabili, che rendano inutili le guerre per accaparrarsi le fonti fossili. Dobbiamo articolare la nostra opposizione alla guerra usando non tanto argomenti ideologici, o appellandoci ai buoni sentimenti quanto facendo leva sui nostri interessi di classe sfruttata, una classe che rivendica migliori tutele, diritti, condizioni di vita, prospettive occupazionali, benessere, sicurezza economica e sanitaria. Su questo dobbiamo costruire un grande blocco sociale, che parta dall’avversione verso ogni avventura guerrafondaia e che si estenda in profondità e durata, per rovesciare il tavolo di chi usa la parola “patria” per fatturare su carri armati, fregate e bombardieri. E perpetuare rapporti di classe che sono una gabbia per i veri bisogni dell’umanità, cui serve un percorso di emancipazione radicale, verso un sistema internazionale basato su cooperazione, sviluppo, pace e democrazia diretta.
Economia italiana in profonda crisi
La nostra classe dirigente (politica ed economica) ha deciso di basare la competitività del nostro Paese su un modello produttivo che unisce due aspetti: bassi salari e centralità di attività a scarsa innovazione (in particolare nel settore dei servizi). In questo modo, non solo la precarietà del lavoro è dilagata, la disoccupazione è cresciuta e il lavoro nero è diffusissimo (in particolare in agricoltura e nell’edilizia) ma la posizione competitiva del nostro Paese, nel contesto europeo e internazionale, risulta essere precipitata. Quello a cui ci troviamo di fronte è un modello che possiamo definire “neo-mercantilista debole” (perché opposto a quello “forte” incarnato dalla borghesia tedesca) dal momento che fonda la sua competitività su deflazione salariale, bassa inflazione, moderazione del conflitto sociale e crescita costante delle esportazioni. La crisi sanitaria del Covid-19 ha aggravato gli squilibri a cui abbiamo fatto riferimento. Questi periodi di assestamento servono però ai gruppi dominanti anche per ripensare ed eventualmente superare alcuni “dogmi” che prima sembravano intoccabili (pensiamo alla temporanea sospensione dei vincoli europei sull’indebitamento pubblico). Le classi dominanti europee e mondiali hanno iniziato a ragionare su come sfruttare la crisi pandemica per rilanciare la crescita economica capitalistica e su quali nuovi settori aprire all’accumulazione di capitale (pensiamo a tutto il discorso ufficiale sulla Green Economy e sulla Quarta Rivoluzione Industriale). Nel caso italiano i due governi Conte sono caduti perché la borghesia italiana non li riteneva abbastanza affidabili, a fronte dell’arrivo dei fondi europei (circa 190 miliardi da spendere tra il 2021 e il 2026). La “nostra” borghesia si è mossa, fin da subito, affinché questa montagna di miliardi fosse spesa nel suo esclusivo interesse da un governo totalmente subalterno alle sue direttive: ecco spiegato l’arrivo di Mario Draghi, nel ruolo di grande stratega del capitalismo italiano, espressione della frazione economicamente più dinamica del capitalismo italiano (le cosiddette medie imprese del “quarto capitalismo” impersonate dalla figura di Carlo Bonomi). Il compito del governo era duplice: completare la campagna vaccinale e realizzare le condizioni per accedere alle risorse europee del P.N.R.R. quale strumento di rilancio dell’accumulazione capitalistica e restaurazione del potere di classe.
Mondo produttivo nazionale
È cambiata la stessa geografia interna della manifattura, prima incentrata su grandi fabbriche nelle grandi città del Nord, ora articolata sulla scomposizione di piccole-medie fabbriche, un reticolato di servizi alle aziende e una forte diffusione di realtà commerciali e di movimentazione merci. Tra Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto vive circa il 32% della popolazione totale, ma lì si realizza il 55% della produzione industriale nazionale, lì risulta occupato circa il 51% della manodopera industriale, lì si concentra il 60% delle 1305 industrie grandi che si contavano in Italia nel 2018. In queste aziende la democrazia sindacale è ormai un simulacro, dopo che è stato imposto il monopolio Cgil, Cisl e Uil. La contrattazione si è trasformata, il più delle volte, in soli diritti di informazione o avvaloramento di premi per favorire la produttività o introduzione di welfare aziendale. Serve dunque una nuova progettualità per affrontare questa nuova conformazione capitalistica e la necessaria rivalutazione del lavoro nella sua funzione sociale, come emersa durante la pandemia. “La nostra organizzazione deve darsi come obiettivo quello di radicarsi nelle imprese di medie dimensioni fortemente internazionalizzate che hanno caratterizzato lo sviluppo capitalistico italiano negli ultimi decenni. La presenza nel settore industriale (metalmeccanico, chimico-farmaceutico e tessile) è essenziale per chi vuol far sindacato; la manifattura è insostituibile perché concentra ricerca, innovazione ed è insostituibile perché c’è bisogno di strumenti di lavoro che restano fisici, da costruire e manutenere.”
In conclusione possiamo dire che se il P.N.R.R. non segna un cambio di direzione nel perseguimento di specifici interessi politici e di classe da parte di chi governa l’Unione Europea può aprire, almeno sul terreno nazionale e per qualche anno, uno spazio di manovra per le organizzazioni conflittuali, se sapranno agire per orientare i flussi di spesa a favore delle classi subalterne. La parentesi del Governo Draghi ha segnato un relativo salto di qualità con cui la borghesia italiana, come il Gattopardo, ha provato “a cambiare tutto, senza cambiare nulla”. Ciò che, infatti, deve essere preservato a tutti i costi sono i pilastri di un modello “neo-mercantilista debole” che ha già dimostrato le sue intime fragilità con la diffusione del Covid-19. “La nostra organizzazione dovrà, dunque, adeguare, quanto prima, i suoi programmi e le sue azioni di lotta alla nuova situazione post-pandemica se vorrà continuare a giocare un ruolo efficace nella tutela degli interessi della classe lavoratrice.” E il governo Meloni si presenta come il prosecutore della restaurazione avviata da Draghi sia per quello che riguarda i rapporti internazionali sia per le politiche economiche. Di suo aggiunge alcuni obiettivi politici identitari: securitarismo, presidenzialismo e autonomia regionale che potranno solo peggiorare la già drammatica situazione delle classi popolari.