Da ormai due anni a questa parte stiamo vivendo in un contesto di inflazione alta che alle più anziane e anziani non può che ricordare gli anni 70. A maggio 2023 l’ISTAT ha rivisto l’inflazione (che a settembre del 2022 aveva toccato il 12% annuo) al 7,6%. Un aumento comunque considerevole che certifica che il galoppo dell’aumento dei prezzi continua.
Di fronte a questo aumento continuo i salari nominali continuano a restare al palo. Un salario monetario lordo medio in Italia è cresciuto nel 2022 di circa il 3% mentre l’aumento dei prezzi era superiore al 9%. Quindi i salari reali hanno perso l’anno scorso il 6% del loro valore.
Stiamo parlando di un grave impoverimento delle classi lavoratrici le cui conseguenze stiamo vivendo sulla nostra pelle con un crollo dei consumi e delle possibilità reali di mettere insieme il denaro necessario a pagare affitti, trasporti e la stessa spesa alimentare.
La struttura della contrattazione di questo paese è la prima responsabile del nostro impoverimento.
In Italia infatti la contrattazione del salario avviene sulla base di un indice dei prezzi denominato IPCA depurato dalla componente energetica importata. Questa frase vuol dire che la contrattazione avviene sulla base di un’inflazione dalla quale viene eliminata la componente portata dal prezzo del gas e del petrolio importato. Salta agli occhi a chiunque che l’hanno scorso un simile indice ha calcolato un’inflazione nettamente più bassa del reale dal momento che il grosso dell’aumento dei prezzi è derivato dalle speculazioni internazionali sul prezzo dei beni energetici.
Quest’anno è diverso perché l’inflazione, nettamente diminuita sull’energia, si è scaricata in modo massiccio sui prezzi al consumo. Peccato che i rinnovi contrattuali principali (a parte il contratto dei metalmeccanici) siano stati svolti nell’ultimo biennio e sono quindi già molto indietro rispetto all’aumento reale dei prezzi.
Quello che stiamo scrivendo è solo apparentemente una disquisizione tecnica. La realtà è che dietro a queste discussioni per esperti si cela il modo in cui il padronato, con la collaborazione dello Stato e di CGIL, CISL e UIL, sta mandando avanti la lotta di classe nel nostro Paese.
Riassumendo:
- l’inflazione nel nostro Paese ha raggiunto cifre molto alte superiori al 10% tra il 2022 e il 2023;
- i salari nominali sono cresciuti appena del 3%, perdendo così più del 6% sul piano reale;
- l’inflazione ha premiato i profitti e castigato lavoratrici e lavoratori;
- l’aumento dei tassi di interesse, deciso dalla BCE, non ha rallentato l’inflazione ma in compenso ha tenuto bassi i salari;
- la contrattazione collettiva nazionale avviene su un indice, l’IPCA, farlocco che non tiene conto degli aumenti dei prezzi energetici.
A fronte di questa situazione è assolutamente necessario invertire rotta e sganciare la contrattazione salariale da qualsiasi indice inflattivo. L’inflazione può essere battuta solo da due misure radicali che rafforzino i salari nei confronti dei profitti:
- l’introduzione di un meccanismo automatico trimestrale di adeguamento dei salari all’inflazione (la “scala mobile”);
- i prezzi legati alla speculazione internazionale, principalmente quelli energetici, devono essere sganciati da un mercato dominato da interessi speculativi e calmierati per legge.
Solo con provvedimenti di questo genere lavoratrici e lavoratori possono essere in grado di difendersi dal caro-vita. La rincorsa ad handicap di prezzi che salgono dominati da meccanismi fuori dalla nostra portata non può che condannarci ad essere sempre più poveri.
FLAICA Uniti CUB Piemonte