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La Scuola 4.0

Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera di una professoressa del Liceo Einstein di Torino sulla scuola 4.0 come contributo alla discussione su di una questione di grande rilievo

Care colleghe e cari colleghi,
mi permetto di scrivervi perché non so se in Collegio docenti sarò in grado di fare un intervento coerente a proposito del Piano Scuola Digitale dell’Einstein, con il quale anche la nostra scuola approva e si allinea al Piano nazionale della Scuola 4.0, che ha come obiettivo la digitalizzazione della scuola italiana: vale la pena di darvi un’occhiata.

La questione della Scuola 4.0 è molto complessa e ha tantissimi aspetti che è difficile trattare in poche parole e che richiedono competenze certo più ampie delle mie. L’intento di questa lettera è di sottoporvi, dal mio punto di vista, certamente parziale e limitato, alcune considerazioni che, nel caso in cui ci venisse richiesto di votare l’approvazione del Piano Einstein, motiveranno il mio voto contrario.
Non si tratta di essere contro le tecnologie, ma di non voler essere schiavi delle tecnologie. Durante i vari lockdown ero rimasta molto infastidita dalla pressione di DeaScuola e di molti altri perché i vetusti insegnanti “frontali” adottassero la “didattica digitale” e avevo cercato di capire di che cosa si trattava facendo qualche ricerca. Mi ero poi confrontata con altri seguendo dei seminari e avevo anche iniziato scrivere un articolo che però non ho terminato. Mi ero resa conto di come i padroni del web, in particolare Google e Microsoft, stessero “riformattando” le modalità di insegnamento (attraverso la costruzione di specifici ambienti di apprendimento) e al contempo estraessero dati dal nostro lavoro e dalle vite degli studenti: quello che mettiamo in Drive o in Google moduli non è più esclusivamente nostro, così come quello che scriviamo nelle email; inoltre se non usciamo dall’account siamo profilati nelle nostre attività online, così come lo sono gli studenti. Mi ero resa conto di come le multinazionali della formazione, in particolare De Agostini (DeAScuola), stessero costruendo ambienti formativi (di scarsa qualità) sostitutivi della scuola che conosciamo: lezioni, video, esercizi, verifiche in piattaforma, certificazioni e carrello per gli acquisti (DeAgostini è diventata una multinazionale italoamericana che gestisce il gioco del lotto, assicurazioni, entertainment televisivo e online, editoria e formazione). Insomma, un business globale.

Oggi, nel Piano Scuola 4.0, mi viene confermato che si vuole trasformare la concezione dello spazio fisico dell’apprendimento, che, sebbene non sia chiaramente descritto, non sarà più l’aula, ma una sorta di spazio misto, fisico e virtuale. E mi viene in mente che per questo motivo non c’è un piano nazionale di edilizia scolastica che ristrutturi le nostre scuole a pezzi; le scuole che conosciamo dovranno essere sostituite da altri tipi di “edifici” ed è inutile ristrutturare quelli vetusti. Al momento riesco solo a immaginare grandi spazi popolati di schermi, ma la contaminazione tra spazio pubblico scolastico e spazio privato è evidente: ci si può collegare da casa, da un giardino, da qualunque luogo, che diventa “ambiente formativo”, in una sorta “connessione orizzontale” totale, “un continuum educativo e scolastico fra lo spazio fisico e lo spazio virtuale per l’apprendimento, ovvero un ambiente di apprendimento onlife”. E mi viene anche confermato che gli “ambienti di apprendimento innovativi” richiedono di rivedere completamente i curricula e i contenuti. Non so quanto le descrizioni dell’“apprendimento immersivo”, in “realtà aumentate”, tra metataversi, eduversi e avatar, raccontate nel Piano Scuola 4.0, siano realistiche, anche per questioni di costi (che sono esorbitanti). Al momento riesco solo a immaginare la trasformazione del docente in un “formatore”, peraltro sostituibile con un software automatizzato, che somministra alle/gli studenti materiali didattici (forniti dalle multinazionali della formazione) mirati sui loro profili.

Ho denominato questo processo “privatizzazione digitale della scuola”, che mi appare una riforma dell’istruzione non dichiarata e non approvata dal Parlamento né concordata con i sindacati, che avanza in modo strisciante richiedendo la nostra collaborazione, di cui ha essenziale bisogno. Tralasciando questioni importanti, quali una discussione sul software privato, libero o pubblico, mi chiedo se siamo proprio obbligati a dare il nostro consenso a un processo antipedagogico che punta a dissolvere non solo il nostro lavoro, ma interi mondi sociali e culturali.
Siamo proprio obbligati ad allinearci senza fiatare alla “scuola 4.0”? Non vogliamo essere noi a decidere come usare le tecnologie?
Certo il processo è lungo, visto che la strumentazione informatica così come la qualità della connettività molto spesso lasciano a desiderare, e probabilmente non si è ancora globalmente a un livello tecnico adeguato.
Certo, vi è una diffusa “resistenza passiva” degli insegnanti “frontali” a cedere sovranità didattica, forse derivante più dalla vocazione e dall’esperienza di educatrici/ori che dalla chiara consapevolezza dei processi in atto (e proprio su questa “resistenza passiva” si sta facendo pressione attraverso la propaganda sulla transizione digitale).
Ma è davvero sconfortante pensare che con i soldi del PNRR proporremo esercizi in piattaforma agli allievi fragili e allestiremo due aule digitali, quando abbiamo miriadi di bisogni che non possiamo soddisfare perché non ci sono risorse, ad esempio educatori al pomeriggio, come si fa in diverse scuole, spazi di lavoro confortevoli, aule ampie, classi di max 22 allieve/i, bagni decenti, giardini piacevoli e fruibili, soggiorni linguistici e viaggi di istruzione a basso costo, personale ATA in numero adeguato, ecc. ecc. ecc.

Questi i miei pensieri, che ho voluto condividere perché, anche se presto andrò in pensione, spero sempre che giunga il momento in cui noi insegnanti prendiamo finalmente parola e rivendichiamo la dignità e il valore sociale del nostro mestiere, non sostituibile da software e da piattaforme, un mestiere che definirei antropopoietico, perché non si limita a trasmettere informazioni e/o conoscenze, ma dà forma all’umanità del futuro.

Un caro saluto, Terry Silvestrini

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